Ci eravamo conosciuti a Macerata, nel marzo del 1992. Un gruppo di giovani intellettuali aveva organizzato un incontro sulla nuova poesia; ricordo la presenza, tra gli altri, di Gianni D’Elia e Stefano Dal Bianco. Gianni era stato il primo, vero scopritore di Maurizio Marotta, che studente a Urbino aveva scelto di discutere una tesi su Sandro Penna con Katia Migliori. Fu questo sodalizio a determinare l’esordio del giovane poeta sulla rivista «lengua». In realtà il nostro primo contatto risaliva a qualche mese prima; avevo potuto leggere una sua breve raccolta, Il cielo dai balconi, nel primo di quei quaderni dedicati alla giovane poesia italiana – quaderni che avrebbero avuto una lunga fortuna – curati da Franco Buffoni. Così lo contattai per avere da lui qualche testo da pubblicare in una piccola rivista, «Trame», che redigevo in quegli anni. Maurizio rispose subito, ne venne un fitto corrispondersi. (…) La scrittura, in versi ma anche in prosa, e la grafica hanno rappresentato per lui il terreno più autentico per un disvelarsi che fosse anche, e soprattutto, messa a fuoco dei suoi nodi esistenziali; ma continuo a credere che ancora alla poesia, nonostante i divertiti e compiaciuti camouflages, Marotta avesse affidato un ruolo centrale, primario, nel proprio percorso di acquisizione e reinvenzione di un mondo, che resta un mondo essenzialmente lirico.
Ombra da viaggio è quindi il suo blasone, la sua sigla. Si può viaggiare nella realtà come ombra, inconsistenti e invisibili, come nel celebre racconto di Chamisso, affrancandosi da ogni corporeità; oppure quell’ombra può essere il riflesso visibile del cammino compiuto, delle tappe percorse: l’ombra come scansione del tempo. Ancora, può essere un semplice modo di nascondersi, come in effetti il poeta Marotta fece. In qualsiasi modo la intendiamo, la metafora ha comunque una sua derivazione, per quel lettore colto e onnivoro che era stato lo studente a Urbino.
(dalla nota introduttiva di Roberto Deidier)

Scelti per voi
C’è la luce dei dettagli
e secche alberature sempre spoglie
e rami di una doglia cittadina che non cede.
Guardale da qui le antenne
e dimmi se non sono belle, bellissime,
e veritiere se qualcuna inclina.
Fila sui neri cavi, è sbigottita,
tutta in salita l’età vuota.
—
Avere in cuore un’altra vita
e andarsene per fossi, dentro i campi.
L’amore in testa e nella gola i canti.
Pure è un ‘ora comune,
d’estate i temporali fa
spinge a quei muri
cose, persone.
Dopo riparte più giovane e altrove
più mite si avventura.
Allora,
benedetto sia l’arancio che tra i muri
ci consola fino a tardi,
noi dai sogni irresoluti,
araldici e incompiuti
se da ubbriachi, matti, rincasando
tutta l’aria intorno è un novecento.
—
Cadono vecchie figure, anagrammi di volti
beneauguranti ad eterne passioni
o semplici nomi per sempre
giurati una volta davanti ai bar.
Dediti a inganni si è
per il mare e le stelle
per la voglia che esiste
di volersi ferire e dimenticare
di addolorare l’umano l’un l’altro.
Ma imparare una volta è bastato
l’odio per l’amore
tutto imprecando e guardare
fissi, alla coda di un treno, sporti
dolci mani che spariscono nei giorni.
—
Maurizio Marotta (Laurino 1963-Salerno 2020) ha scritto poesie, prose e ha svolto con lo pseudonimo Tatlin un’intensa attività grafica. In vita ha pubblicato due raccolte di versi, I cappotti morti (1989) e Il cielo dai balconi (1991). Tra le sue prose, sparse in periodici e plaquette, si ricorda Cane di pane (con illustrazioni di Oreste Zevola, orecchio acerbo 2002). Ha creato il sito «Zadalampe», dedi¬cato a memorie e cronache di Laurino.