Asteroidi D’inchiostro
“libri come corpi celesti persi nello spazio dell’indifferenza”
Smilzo come un poema Delillo ci consegna un romanzo pieno di interrogativi. Con una andatura prosastica intima narra la storia di un abbandono, tentando di trasformare in un concerto di spettri la disarmonia del lutto. Tutto nasce da una mancanza improvvisa, da un colloquio sentimentale che si spezza alterando l’immaginazione. Lauren è una body artist, vive con il marito Rex, famoso regista e poeta (ormai in declino) in una casa nel Maine lontano dal centro abitato. Dopo il suicidio del marito avvenuto in circostante misteriose a casa della ex moglie, lei sceglie di continuare ad abitare nel Maine, quelle mura diventeranno per Delillo il luogo cardine della trama che nidificherà in un parallelismo confidenziale tra la vedova e un fantasma. Già dal secondo capitolo sembra quasi che il lettore venga risucchiato da una vertigine poetica, grazie naturalmente alla maestria di Delillo e al suo scavo psichico che si aggira come un’ape pronta a succhiare la sensibilità ferita di Lauren. Ma poi fa di più, manipola la sua immaginazione creativa dando corpo a un replicante del marito. I fantasmi sono ottimi interlocutori quando il vuoto lascia impronte in ogni ora della negazione. Negare l’accaduto crea una nuova dimensione narrativa: una sorta quindi di estensione descrittiva e lirica sempre sul punto di un precipizio d’irrealtà “forse quest’uomo sperimenta un altro tipo di realtà dove lui è qui e là, prima e dopo, forse si muove nello spazio e nel tempo, emotivamente sconvolto, in uno stato di collasso, senza una identità, una lingua, un modo di assaporare il pane tostato cosparso di miele che sta mangiando mentre lei lo guarda. Pensò che forse viveva in un tempo che non possedeva dimensione narrativa”. E forse sta lì la chiave di tutto il romanzo, in quella dimensione narrativa che si annulla in un tempo che per Lauren e il replicante del marito diventa un santuario, qualcosa di immobile da venerare. Un tempo statico su cui meditare la concezione del dolore nel viaggio artistico di una donna che tenta di non lasciare andar via a costo di sostituire la materia con un’ibridazione memoriale. E così quell’uomo che credeva fosse un intruso piccolo e gracile, dalla carnagione chiara a cui dà il nome di Mir (come il suo ex professore) diventa ben presto la rivisitazione di una relazione mai messa a fuoco durante quella avuta con il marito, sarà un appiglio di conforto di fronte a quella nuova idea di caos interiore. Il lutto in questo libro ci consegna con un tratteggiare poetico l’universo quasi disabitato di due essere umani all’apparenza legati da un bisogno incessante di ricoprire gli spazi della propria tragedia. Ma in fondo l’individuo che si cela dietro Mr Turle non è altro che il simbolo di una incomunicabilità tra presente e passato, un passato che ossessiona Lauren ma che la porta attraverso la sua irrequietezza artistica in una dimensione sensoriale quasi appagante. Una storia di fantasmi nella sua mente che come fa con il suo lavoro manipola per superare se stessa e conoscere realmente chi è diventata dentro quella solitudine improvvisa. De Lillo ci accompagna dentro un mondo enigmatico che forse come in un testo poetico si regge con un impeto di visioni e lo fa con uno stile cristallino, sapientemente controllato da un realismo paranoico: “stava lavorando sul proprio corpo, accovacciata sul pavimento freddo e inalava il proprio odore. Ma non può essere che lui passi da una realtà all’altra, indipendentemente dalla logica del tempo. Non è possibile. Noi siamo fatti di tempo. Il tempo è la forza che ci dice chi siamo. Chiudi gli occhi e ascoltalo. È il tempo a definire la tua esistenza.” Queste parole spazzano via ogni ambiguità, sbattono in faccia l’unico motivo che in tutta la nostra esistenza ci logora in attesa di domande: il tempo che ci sovrasta, che accompagna lentamente ogni aspettativa verso il decadimento mentre la paura di ogni perdita apre nuovi scenari sulla conta finale forse sta a lui sottoscrivere con un dialogo intimo la natura dei (nostri) fantasmi a cui diamo nomi diversi e forse non c’è demone più azzeccato per renderli vulnerabili e accettabili se non quello dell’arte, quasi a voler credere che nella spietatezza creativa si annidi l’intera biografia del vissuto, l’io che germogliato dal vuoto dopo un processo di conoscenza ricade nel vuoto tra spazio e tempo, amore e odio, silenzio e caos, come se ogni storia avesse bisogno di raccontarsi raccontando il principio degli opposti.
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