Asteroidi D’inchiostro
“libri come corpi celesti persi nello spazio dell’indifferenza”
Han Dong è un poeta cinese, ma anche un inquieto dissidente dello stile, un versificatore del quotidiano e non per questo un banale untore della mediocrità esistenziale, e neppure un minimalista osservatore dello spazio urbano. Han Dong essendo anche un narratore è forse una specie di predicatore della realtà: la fede a cui è devoto è la diaspora dell’uomo qualunque di fronte alla dittatura dei poeti ossessionati dalla tradizione. Dalla sua voce anche di saggista e teorico ecco alcune sue tesi “la poesia è qualcosa di distante dal sapere, è qualcosa che appartiene a coloro che non hanno perduto l’innocenza. Scrittori e lettori comunicano grazie all’innocenza e non al sapere”. Una questione privata viene quasi da pensare, una complicità che conquista in termini di meraviglia l’ascoltatore. La poesia di Han Dong è immediata e semplice, nel suo vocabolario poetico mostra la frustrazione dell’essere umano che si piega alle vicende della vita senza per questo diventarne un simbolo di rottura. In questo modo il suo poetare rifiuta il senso del mistero e la tragedia quasi sprezzando un linguaggio panteistico e lo fa prendendo le distanze da quel retorico uso di metafore e simboli. Attraverso il verso libero travalica la tradizione alla quale si aggrappano ancora i suoi compagni di strada: isola dal suo peregrinare creativo quella terra di ambiguità ideologica. Per lui la Cina non è più quel luogo meta-letterario chiuso ma bensì un enorme udito che capta nuovi stimoli letterari dall’occidente. Servendosi così di una scrittura votata alla leggerezza indica il suo percorso anti-lirico, vaga nel concetto di vita ordinaria fissando il declino temporale dell’uomo comune. In un’altra intervista con le sue visioni di poeta spiega di come è affascinato dallo humour “mi piace l’humour, in particolare quello freddo, quello che chiamano humour nero, poiché esso non è soltanto un’emozione ma un modo di vedere il mondo, un’epistemologia forse”. Eppure nel continuare a dirci “la poesia non è subordinata a scopi che vanno al di là di essa: il suo scopo più alto è di essere senza scopo” crea una sorte di irriverenza ma verso chi? È certamente la sua una presa di posizione critica verso la nuova società cinese eretta sul potere economico. Di fronte a questa ineluttabile realtà, la sua poesia per descrivere l’epopea quotidiana di questi individui, si alimenta di tutti i meccanismi linguistici popolari, appare semplice anche se in termini filosofici entra come una lama in tutti quei punti interrogativi che minacciano lo scopo del nostro essere voce, corpo, e pensiero in un processo esistenziale spesso intuito come catastrofe. Versi come questi “ ho avuto una vita solitaria di campagna/ ho dato forma alla parte più tenera di me/ ogni volta che sento di averne abbastanza/ ecco un soffio di vento che viene a liberarmi/ almeno non sono così ignorante/ io so da dove viene il cibo/ vedi come ho vissuto fino in fondo i giorni della povertà/ e sono riuscito anche ad essere felice/ l’abitudine di uscire presto e rincasare tardi/ prenderla è stato facile come maneggiare la zappa/ solo che non potrò più raccogliere nulla/ non posso più ripetere quei piccoli gesti/ qui è sempre una vera angoscia/ come un contadino che piange amaramente il suo raccolto.” sembrano una dichiarazione d’emancipazione trovata forse grazie al dono creativo della parola. Ecco allora il poeta che fugge dai villaggi di campagna verso centri urbani per arricchire la sua verve stilistica senza però abbandonare le origini. In questo atto si potrebbe dire di rinascita, è come se cercasse di consolidare il suo stato di ribellione. Ma ribellarsi a chi a cosa? È forse questa l’urgenza della sua e di tutta la poesia, non tenere insabbiata la voce, sradicare da tutti i regimi occulti dell’anima quella voglia di indicare un pensiero di quiete, quell’armonia che celebra la quotidianità facendo si che il male diventi coscienza fertile, bene che accomuna gli uomini di fronte al debito della vita. Consapevoli ahimè che sempre tutto trascende da un ciclo dettato dalla morte, purtroppo spesso usata per errore come una frontiera e non come il privilegio di una esplorazione spirituale, essenziale per analizzare il conflitto tra il dolore e la gioia: mai nemici ma piuttosto esegeti di una energia forte di quei dubbi fondamentali in chi sceglie ogni giorno la libertà. Ma un uomo libero senza la parola è solo utopia. Han Dong sembra averlo intuito per questo chiama in causa la propria biografia, tra passato e presente crea un terzo spazio di confessione, un luogo nuovo perfettamente conciliabile con la meraviglia: lei che nelle inquiete esternazioni di un uomo al centro della propria storia, porge una nuova lingua e una grande consapevolezza nelle contraddizioni. Concludendo ancora con questi versi così coincisi, cornice di un auto ritratto fuori posa “ Questo mondo ha qualcosa di nuovo, / ma non tutto./ Ha qualcosa di estraneo, anzi è del tutto estraneo.” il poeta Han Dong sbaraglia le aspettative di qualsiasi lettore, gli offre il caos e il de potenziamento concettuale che non dovrebbe appartenere alla poesia ma per lui i versi non mettono ordine, sono soltanto il prolungamento delle nostre azioni di fronte agli eventi della quotidianità, anche quando si è estranei a tutto quello che ci circonda resistere è già un mondo a sé, la dolce anomalia di chi non sceglie di essere branco . Per me la poesia di Han Dong è stata una scoperta o meglio una illuminazione di come nella totalizzante fragilità esistenziale raccontata, i versi diventano scintille filosofiche, pillole di libertà nella sciagura di un tempo controllato da invisibili dittature.
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