Salutato già da Franco Fortini come “poeta di grande statura” nella sua recensione al Fiore del verso russo di Renato Poggioli (1949), Mandel’štam è noto nel nostro paese soprattutto in quella versione che Alessandro Niero, in Tradurre poesia russa, ebbe a definire “caso di acclimatazione italiana particolarmente riuscita” – ovvero nell’edizione curata per la “Bianca” einaudiana da Remo Faccani (Cinquanta poesie, 1998, poi accresciuta di altre trenta nel 2009). Nella nota di accompagnamento al testo, Faccani menziona, fra i criteri cui si era attenuto nel corso del suo lavoro, la volontà di “ricreare, reinventare, per quanto possibile, la forma del verso russo”, nonché una “mallarmeana ‘réminescence du vers strict’”, perseguita mediante “l’impiego di versi tradizionali italiani che non rifuggono da irregolarità”, soprattutto l’endecasillabo o il “quasi-endecasillabo”. Rispetto a chi, in tempi recenti, per tradurre Mandel’štam, ha optato per la via del verso libero (anzitutto Gario Zappi nell’Opera in versi, Giometti&Antonello 2018), quella di Faccani mi è parsa una strategia condivisibile per accostarmi alle poesie che seguono, mai tradotte in italiano, la cui composizione copre l’arco di un decennio esatto, dal 1910 al 1920. Proprio tale circostanza giustifica il loro accostamento, al fine di tracciare l’evoluzione di un tema – il presagio di imminenti avvenimenti catastrofici, puntualmente avvenuti – svolto dal poeta col consueto, incalzante succedersi di riferimenti all’antichità greco-giudaica e di immagini tratte dall’incivilità del “tempo rozzo” a lui coevo (la “folla d’autoblindo”).
In ossequio al tradizionalismo del sistema poetico russo che, anche in pieno Novecento, privilegia le forme chiuse, mi sono sforzata nelle prime due liriche di rendere la pentapodia/esapodia giambica con degli endecasillabi si spera non troppo traballanti. Memore anche della testimonianza di Nadežda Mandel’štam, che ricordava come il poeta componesse quasi esclusivamente camminando, quindi affidandosi in primis all’elemento ritmico e sonoro. Al contempo, mi auguro di non essere incappata nel rischio già segnalato a suo tempo da Iosif Brodskij, il quale, pur sostenendo strenuamente la necessità di mantenere lo schema metrico nelle traduzioni, notava: “Senonché, non appena il moderno lettore inglese si trova di fronte a questa misura di regolarità, pensa subito alla sua poesia nazionale del passato che già da un bel po’ di tempo l’ha stufato. O, peggio ancora, non la riconosce come familiare”.
Gli originali sono tratti da О.E. Mandel’štam, Sobranie sočinenij v 4 tomach. Мoskva, Art-Biznes-Centr, 1993, tom 1. Edizione consultata: https://rvb.ru/20vek/mandelstam/
La traduzione di A Cassandra è stata discussa al Laboratorio Italiano, promosso dalla Casa dei Traduttori Looren in collaborazione con Fondazione Garbald e Pro Grigioni Italiano e tenutosi a Castasegna, Villa Garbald, dal 5 al 12 aprile 2022. Tutta la mia riconoscenza va dunque ad Anna Ruchat e Damiano Abeni, nonché a Marina Pugliano e Anna Rusconi, per avermi offerto la possibilità di confrontarmi con i colleghi sul mio work in progress.
Ringrazio inoltre Caterina Graziadei per aver voluto condividere con me consigli e riflessioni sull’“impossibile” Mandel’štam. E, ovviamente, Dario Borso, istigatore dell’intera impresa.
Осенний сумрак — ржавое железо
Скрипит, поёт и разьедает плоть…
Что весь соблазн и все богатства Креза
Пред лезвием твоей тоски, господь!
Я как змеей танцующей измучен
И перед ней, тоскуя, трепещу,
Я не хочу души своей излучин,
И разума, и музы не хочу.
Достаточно лукавых отрицаний
Распутывать извилистый клубок;
Нет стройных слов для жалоб и признаний,
И кубок мой тяжел и неглубок.
К чему дышать? На жестких камнях пляшет
Больной удав, свиваясь и клубясь,
Качается, и тело опояшет,
И падает, внезапно утомясь.
И бесполезно, накануне казни,
Видением и пеньем потрясён,
Я слушаю, как узник, без боязни
Железа визг и ветра тёмный стон!
Il buio in autunno è ferro rugginoso
Scricchiola, canta, corrode la carne …
La nostalgia di te è lama, o Signore,
Dei beni di Creso non so che farne!
Io, estenuato da una serpe danzante,
Al cospetto suo, nostalgico tremo,
E non voglio meandri nell’anima mia,
Sia ragione che musa tengo a freno.
Basta di negazioni maliziose
Dipanare la sinuosa matassa.
Per tristi ammissioni non esistono
Belle parole, grave è il calice, poco
Fondo. A che pro respiro? Sulle pietre
Un boa malato danza, si rizza,
E, attorcendosi, ondeggia, il corpo cinge,
E ricade, tutt’a un tratto illanguidito.
E invano io, alla vigilia della pena,
Dalla visione e dal canto scosso,
Ascolto come in ceppi, senza timore:
Sibila il ferro, geme il vento fosco!
—
Я не искал в цветущие мгновенья
Твоих, Кассандра, губ, твоих, Кассандра, глаз,
Но в декабре торжественного бденья
Воспоминанья мучат нас.
И в декабре семнадцатого года
Всё потеряли мы, любя;
Один ограблен волею народа,
Другой ограбил сам себя…
Но, если эта жизнь — необходимость бреда
И корабельный лес — высокие дома́, —
Я полюбил тебя, безрукая победа
И зачумлённая зима.
На площади с броневиками
Я вижу человека — он
Волков горящими пугает головнями:
Свобода, равенство, закон.
Больная, тихая Кассандра,
Я больше не могу — зачем
Сияло солнце Александра,
Сто лет тому назад сияло всем?
Когда-нибудь в столице шалой
На скифском празднике, на берегу Невы —
При звуках омерзительного бала
Сорвут платок с прекрасной головы.
Io non cercai negli attimi fiorenti,
Le labbra tue, Cassandra, gli occhi tuoi,*
Ma è dicembre – vigilia di eventi
Solenne, e il ricordo ci è d’affanno!
E a dicembre, diciassette era l’anno,
Tutto smarrimmo, amando;
Chi derubato per volere del popolo,
Chi a se medesimo rubando…
Ma se questa vita ci forza al delirio –
Non selva di navi, bensì alte case –
Il volo spicca, mutila vittoria,
Pestilenza di noi iperborei!
Sulla piazza folla d’autoblindo
Una figura io scorgo: è lui,
Minaccia i lupi con tizzoni accesi:
Libertà, uguaglianza, legge!
Oh Cassandra, mia cara rondinella,
Tu singhiozzi, vaneggi – perché
Cent’anni orsono è rifulsa la stella,
Di Alessandro il sole è rifulso per noi ?
Verrà un dì nella folle capitale
Sulla Neva, e per la scitica festa
Sulle note di un ballo empio cadrà
Lo scialle dalla mirabile testa…
—
Когда городская выходит на стогны луна,
И медленно ей озаряется город дремучий,
И ночь нарастает, унынья и меди полна,
И грубому времени воск уступает певучий;
И плачет кукушка на каменной башне своей,
И бледная жница, сходящая в мир бездыханный,
Тихонько шевелит огромные спицы теней
И жёлтой соломой бросает на пол деревянный…
Quando urbana la luna scende in piazza
E a poco a poco la città dormiente illumina,
E cresce la notte, colma di rame e di accidia,
E la cera melodiosa s’arrende al tempo rozzo;
E il cuculo piange sulla torre sua di pietra,
E la mietitrice pallida, discesa nel mondo esanime,
Agita sommessa gli enormi ferri delle ombre
E paglia gialla getta sull’impiantito di legno….