Azzarello, Maggini, Giovagnoli: note di lettura L’esordio di tre lirici nati negli anni Novanta.

   Pur nella loro sostanziale diversità, gli ultimi tre esordi poetici pubblicati nella collana, diretta da Andrea Donaera, Billie di ‘round midnight edizioni (Le cose che esistono di Salvatore Azzarello, Esodo di Michele Joshua Maggini e Teratophobia di Gaia Giovagnoli) attestano, tra i nati negli anni Novanta, una vitale esigenza di poesia lirica: occorrerà tenerne conto per scongiurare sommarie archiviazioni di un genere ancora fertile, capace di neutralizzare lo spauracchio del diarismo attraverso la disciplina della forma e il dialogo con una tradizione elettiva, nella fattispecie soprattutto americana.

   Il titolo di Azzarello (1993), Le cose che esistono (si vorrebbe chiosare: τὰ ὄντα), ottempera a una precisa scelta di campo: impegnato a difendere una realtà sotto minaccia («E chi è su […] tolga il bicchiere di vino a chi / giace esangue ai piedi del Genio, / lo porti a spasso per le abbazie delle Marche / lo convinca che ciò che vede è vero», p. 17), l’autore adotta una lingua e una sintassi prive di sbavature, ma anche spiritualmente tese, per raccontare la «malattia del ritorno» (p. 11), lo sguardo dell’esule che rimisura a distanza la terra e gli affetti originari, «il sole che a Palermo uccide gli angeli» dalle «nevi» del Nord (p. 11); o forse piuttosto la nostalgia per una «casa» che «non esiste» (p. 25) e che è solo in parte la «Palermo sporca», «Palermo porca», «Palermo morta» (p. 29) di cui il poeta assembla icastici fotogrammi.

   Diverso è l’intento di Maggini (1996) in Esodo, sorta di poema epico-didascalico ove il lessico geometrico e astronomico (segmenti, assi, meridiani, perpendicoli, geometrie), l’intonazione argomentativa (ad es. «ed uno / è due sempre con organi in comune», p. 32), l’uso del Du-Stil e la coesistenza di futuro, presente assoluto e passato remoto (cfr. ad es. p. 42) si fondono con un registro più lirico (mare, mondo, nome, sangue, voce, ecc.). Pure attraversata da una certa euforia del dire, l’opera rivisita in modo persuasivo il tema dantesco di un «mar de l’essere» che si apre a bibliche migrazioni, interrogando l’identità perduta della razza umana («Uomo è un nome che richiama la terra / non scalfita dal tempo», p. 31): le inarcature del verso riflettono così inciampi e smentite lungo la «corsa all’uno» (p. 32) («perdere / per tentare ancora, per una fine più perfetta», p. 14), spinta ai confini della nominazione, fino a un luogo dove gli opposti coincidono. Maggini risale la storia al guado evocando episodi bellici della Roma repubblicana (Zama, Cartagine), già attivi nel modello eliotiano («Stetson! You who were with me in the ships at Mylae!»); il mito esiodeo, virgiliano, dantesco delle età nella sezione Civiltà e colloqui; gli scenari della Genesi nell’omonima sezione, dal taglio quasi drammatico.

   A una vocazione mitica e clinica, a metà tra Pavese e Sexton, risponde Teratophobia di Giovagnoli (1992), inusuale lavoro di scavo nell’inconscio, teso a smascherare i mostri dell’io bambino, suturarne i traumi e sbloccarne la crescita («Ora il mostro è questa bimba piegata / […] So adesso che nel dirlo lo vedo / lascio vivere me se lo dico», p. 25) e a costruire una mitologia psichica che affianca ai terata greco-romani (Medusa, l’Idra, Cerbero, le Furie) le incarnazioni mitiche della femminilità orbata e sacrificata (Elettra, Ifigenia, Didone, Penelope, ecc.) e un nutrito bestiario (agnelli, cervo, vipera, rondine, cagna, mosche, ecc.). Il «mostro» si identifica, in ultima istanza, con l’io stesso, impastoiato in una serie di «gesti imparati» («Ero mostro fragile / mi chiamavano bambina / mi vestivano da brava», p. 64) che vanno deposti nel rituale ferino della «muta» («sono buccia che esonda / e una muta di serpe», p. 71). Animata da una lingua espressionistica («La parola imparo a tritarla», p. 41), da un aspro lessico anatomico (specie dell’apparato digerente), da una retorica fitta di metafore, consonanze e anafore generatrici di strofe (ad es. «Ti sacrifico», pp. 73-4), ritmata da sequenze isometriche di senari, decasillabi, endecasillabi (ad es. «Nel gonfio dei rovi / ti ho vista bambina / sputare via il pane / e toccarti la pancia», p. 18), l’opera si segnala per la temperatura incandescente della lingua e l’unità del suo disegno.

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