L’io esce di scena (e dal Novecento). Immersioni di Riccardo Emmolo.

Un lettore armato di puro esprit de geometrie rimarrà quanto mai deluso, se non frustrato, nell’accostarsi all’ultimo libro di Riccardo Emmolo, Immersioni, edito di recente per la fiorentina Editrice Clinamen. Sarà bene precisarlo subito. Molto raramente, infatti, capita di venire coinvolti in una lettura che attraversa i generi letterari tradizionali per ibridarli e quindi farli interagire in maniera dinamica e imprevista, e che pertanto, di primo acchito, sembra respingere ogni desiderio, perfettamente umano del resto, di definire, razionalizzare, normalizzare, etichettare per riportare l’insolito a categorie conoscitive più note.

La scrittura di Immersioni si presenta sotto il segno della eterogeneità, della polimorfia, della plurivocità. Tutte categorie novecentesche che la scrittura memoriale di Emmolo, sostanziata cioè da una memoria che stricto sensu si fa ‘esercizio’ di scrittura, accoglie come ultimi riverberi di una crisi gnoseologica e antropologica il cui punto di arrivo è il magnifico baratro che si apre davanti alle grandi esperienze estetiche (nelle arti figurative come nelle scrittura) del secolo scorso. La pratica dell’«immersione» del soggetto, cogitans e scribens, nella materia incandescente e composita che costituisce l’esperienza umana vorrebbe indicare allora una possibile via d’uscita a questa impasse, riconoscendo come correlativo ‘letterario’ di questa condizione la fluidità del genere: dall’aforisma alla scrittura diaristico-filosofica, dal prosimetro a una narrazione tout court con risvolti ‘gialli’ e pirandelliani che strizzano l’occhio persino ai topoi della tragedia greca (triangolo erotico-affettivo, agnizione, scomparsa, legami di sangue, indagine conoscitiva).

Dunque alla legittima domanda su cosa giustifica e tiene insieme questa scrittura irregolare e rapsodica, la risposta non può che essere un nome e un cognome: Riccardo Emmolo.

Non a caso al centro del libro, ineludibile e pressante, si pone la questione dell’identità dell’Io nella molteplicità delle relazioni con l’Altro (Tu femminile o amicale, Mondo, Dio). Ci troviamo, come è facile evincere, in un territorio che metabolizza e fa propria la grande lezione pirandelliana. Tramite la pratica dell’immersione, dell’affondo saggistico, l’autore ci ricorda che l’identità è, a ben osservare, un processo sempre in divenire, una costruzione-narrazione del Sé (previo riconoscimento di un Altro) che la scrittura fissa nello spazio Illimitato (l’ápeiron di Anassimandro) del foglio bianco. È la scrittura, ci ricorda Emmolo, a stabilire il confine tra la vita e il nulla, tra l’io e la sua rappresentazione, tra l’essere e il vissuto.

Da ciò l’idea stessa di verità viene ricondotta al suo senso esperienziale ed evenemenziale: se il soggetto si riconosce costituito di tempo, oltre che dal tempo («Penso di meditare sul tempo che passa, ma in realtà io sono tempo che passa», p. 7), «la verità è solo nel trascorrere» (p. 16); verità, quest’ultima, che può essere ‘agita’ nella creazione poetica a partire dall’imprescindibile componente metrica: «La parola [ritmo] viene dal greco reo che significa “fluisco”, “scorro via”, ma anche “mi dileguo”, “mi dissolvo”, “perisco”. La poesia vive solo nello scorrere verso il fondo dove luce e tenebra, gioia e dolore, vita e morte non sono distinguibili. Le certezze razionali si dileguano, l’io si dissolve: il lettore sente la propria sparizione come necessaria» (Ibidem).

E non solo il lettore, del resto. Nella seconda parte del libro, infatti, la scrittura di impianto saggistico-aforistico cede il passo a una narrazione fictionale che da un certo momento ‘si impone’ (ancora sotto l’insegna di Pirandello) tanto al lettore quanto al suo autore. Una narrazione frastagliata, inconcludente, cioè che letteralmente non giunge a una conclusione, il cui centro, se così si può dire, è rappresentato proprio dalla sparizione dell’omonimo protagonista, Riccardo, esperto di immersioni subacquee. La via d’uscita all’ipertrofia del soggetto cartesiano denunciata dal coté saggistico del volume non può che passare da questo snodo che implica necessariamente l’uscita di scena, fisica, di un Io ingombrante e sordo ai richiami di una vita vissuta nella pienezza della relazione, portatore di quell’estetica dell’Illimitato e dell’Innominabile di marca novecentesca, in favore di un ritrovato equilibrio della misura umana che viene così ricollocata, umilmente e sommessamente, di nuovo al centro del nostro agire sociale. E sarà questo poi il miglior viatico per accedere all’esperienza della verità.

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