L’Assaggiatrice di Giuseppina Torregrossa e la scrittura come liberazione del femminile.
Domenica 12 Gennaio 2025 il Circolo Mazzini di Gangi ospiterà il secondo appuntamento dell’Isola d’inchiostro, dedicato al romanzo di Giuseppina Torregrossa.

 

Fino ai primi anni del Duemila il sesso, il piacere erotico, quello vissuto direttamente, ma anche quello narrato, trasfigurato dall’arte, poteva essere una manifestazione di vita e di bellezza. Poteva essere una strada da percorrere senza troppi sensi di colpa, perché era una strada che portava alla contestazione della repressione sociale, alla conoscenza di sé, alla conquista della libertà.
Il primo romanzo di Giuseppina Torregrossa, pubblicato nel 2007, L’Assaggiatrice, romanzo che sconvolse parecchi lettori, per la crudezza e la franchezza con cui descriveva il piacere erotico sperimentato dalla protagonista, Anciluzza, è forse uno degli ultimi testi in cui una scrittrice, e una donna, hanno potuto attraversare i territori dell’eros con una libertà e un senso di conquista che oggi sembrano essere spariti del tutto dal nostro orizzonte.
Il romanzo comincia con una scena tutta al femminile: la preparazione del pranzo di matrimonio. C’è la futura sposa, Anciluzza appunto; c’è Fifidda, arrabbiata per le proprie delusioni amorose e invidiosa della gioia della sorella; e c’è una vecchia zia, succube per anni della gelosia immotivata del marito, ma che alla fine, proprio quando sul letto di morte il marito le domanda ancora una volta se prima di lui ci fossero stati altri, lei decide di vendicarsi: “Sì, Totò, tu sei stato il terzo!”, gli risponde. Non era vero, naturalmente. Ma il desiderio di vendetta era troppo forte. Il marito muore, soffocato dall’ultima parola pronunciata in vita: “buttana!”.
La colpa della vecchia zia era stata quella di amare il sesso, di saperlo fare con molta, troppa competenza. E questo aveva fatto sospettare il marito. La donna dev’essere innocente e inesperta, mentre al maschio spetta il ruolo di dominatore assoluto della sua vita sessuale. L’uomo controlla, guida, dirige; mentre la donna accetta tutto, non deve conoscere altre possibilità, se non quelle offerte dal marito.
Il matrimonio viene celebrato. Nascono due figlie. Ma, ad un certo punto, Gaetano, il marito, stanco della quotidianità familiare, l’abbandona. Ed è a questo punto che Anciluzza scopre la propria indipendenza, la soddisfazione delle proprie aspirazioni, l’appagamento sentimentale autentico: apre un piccolo ristorante in riva al mare e nel corso di un’estate scopre le molteplici facce dell’eros. Tra queste spiccano le esperienze vissute con un uomo, un migrante, Hamed: un irrequieto, che ha lasciato le coste del nord Africa in cerca di qualcosa di diverso. Con lui sperimenta una sessualità attiva e appagante, che l’aiuta a scoprire se stessa. La sua pelle è lucida e bruna come una melanzana; le sue parole e la sua voce sono dolci e seducenti; arriva nella sua vita come un caldo vento di scirocco.
Ma l’estate finisce, e ritornano l’autunno e l’inverno. E ritorna anche Gaetano, il marito di Anciluzza. Gaetano vorrebbe di nuovo riprendere il dominio sulla donna: pensa che Anciluzza sia ancora la ragazzina ingenua e succube che aveva lasciato. Ma è qui che avviene una scena veramente importante, sia artisticamente che dal punto di vista del senso profondo che contiene. Gaetano, dopo aver mangiato la frittata preparata da Anciluzza, ha voglia di fare sesso. Ma vorrebbe farlo come una volta, da dominatore. Ed è a questo punto che Anciluzza decide di essere lei, stavolta, a prendere l’iniziativa. Lo spinge sulla sedia, anzi, lo inchioda letteralmente alla spalliera. Gli apre i pantaloni, osserva il membro duro e in piena erezione, gli sale sopra e lo scopa violentemente. Gaetano è sopraffatto: era soltanto il suo ruolo di padrone che lo eccitava. E l’erezione sparisce subito. “Una minchia, piccola e storta”. Ecco l’ultima immagine che rimane di quell’ometto insignificante. Un vero e proprio annichilimento di quella falsa mascolinità, fatta di narcisismo e volontà di dominio, di cui molti uomini, e anche molte donne, purtroppo, si compiacciono. Una distruzione operata da una donna, finalmente cosciente di sé, della legittimità del proprio desiderio.
Una scena di questo tipo rappresenta una vera svolta, un autentico e profondo gesto rivoluzionario, un gesto autenticamente terapeutico di una mentalità condivisa ancora oggi.
Ma oggi, non sembra più esserci spazio per questo tipo di donne.
Oggi, è ritornata la parola “buttana”, quella parola pronunciata dal vecchio zio di Anciluzza sul letto di morte, cioè da un uomo di quasi due secoli fa, vissuto in una Sicilia di fine Ottocento. Naturalmente, è tornata attraverso un lungo viaggio fatto negli Stati Uniti, trasformata in un anglicismo, ammantata da un luccicante ritmo rap. Ma la sostanza non cambia.
È mia figlia, di quasi undici anni, che mi ha fatto scoprire questo ritorno, la riemersione di qualcosa che sembrava essere stato superato per sempre un secolo fa.
“Papà, cosa vuol dire bitch?”, mi chiede un giorno, appena tornata da scuola.
“Dove l’hai sentito?”, le rispondo.
“A scuola, le mie compagne ascoltano tutte le canzoni di Anna Pepe, sul cellulare, e quando sentono questa parola, cominciano a ridere. Perché? Cosa significa?”.
“I ragazzi, le ascoltano pure loro le canzoni di Anna Pepe?”
“No, solo le ragazze. I ragazzi ascoltano un altro cantante: Tony Effe”
Naturalmente, le spiego cosa significa “bitch”. E comincio a dare un’occhiata ai testi delle canzoni dei due giovani rapper italiani.
Ne viene fuori questo florilegio:
“Metti un guinzaglio alla tua ragazza ci vede e si comporta come una tr…”
“Bitch, ogni giorno non mi lasciano libero (no). Le ordino da casa come Deliveroo”.
“La tua tipa tra i miei seguaci mi vede e dopo apre le gambe la sc…po e poi si mette a piangere…”
“Ti sputo in faccia solo per condire il sesso / Ti chiamo ‘puttana’ solo perché me l’hai chiesto / Ti sbavo il trucco, che senza stai pure meglio / Ti piace solamente quando divento violento”.
“Lei la comando con un joystick (Uoh) Non mi piace quando parla troppo (Troppo) Le tappo la bocca e me la fott…”
“Sono Tony, non ti guardo nemmeno a novanta così neanche ti vedo mi dici che sono un tipo violento però vieni solo quando ti meno”.
Canzoni di questo tipo sarebbero piaciute molto a uomini come Gaetano. Uomini che basterebbe guardare con un occhio appena più critico, per vederne la miseria, l’inconsistenza. Il loro essere “minchie piccole e storte”
Due secoli di storia sembrano essere stati azzerati, e di nuovo ritorna la parola che aveva soffocato il vecchio zio sul letto di morte. Ma oggi, non è più un grido soffocato, è un canto spiegato ad alta voce, diffusi sui social, un canto che, a quanto sembra, riceve l’apprezzamento di tantissime followers!

 

in copertina Michael Canning, Perfect Love.

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