Mi è stato gentilmente chiesto di esprimere una riflessione sulla poesia e sulla sua funzione, oggi. Ho riflettuto e non mi venivano che considerazioni piuttosto banali, trite e ritrite. Stavo per desistere. Poi…apro la Repubblica e leggo un articolo scritto da Bob Dylan (sì, proprio lui), intitolato Tutti voi potete scrivere Blowin’ in the wind. Il pezzo riporta il discorso pronunciato dal poeta (sì, proprio poeta) durante la cerimonia per l’assegnazione del premio conferitogli dalla giuria dei Grammy Award. “Il più grande cantastorie del mondo”, cosi sottotitolava il quotidiano, racconta come i suoi primi versi fossero emersi da lui in modo subliminale, quindi quasi automatico. Ma aggiungeva che ciò era avvenuto e continuava ad accadere dopo aver ascoltato e cantato tra sé e sé, per anni e con grande trasporto emotivo, i folksinger della generazione precedente. Anche i brani dei suoi maestri mescolavano tradizione e invenzione personale. Quindi, concludeva Dylan (che non per caso ha scelto come suo pseudonimo il nome di un grande poeta), chiunque, dopo aver fatto il pieno di canzoni come quelle da lui ascoltate, avrebbe potuto scrivere, spontaneamente, qualcosa di simile o di ancora più bello dei suoi capolavori.
Nella mia modesta esperienza di poeta, ho seguito lo stesso iter: ho fatto il pieno di letture a cui si sono aggiunte vicende della vita e mi sono ritrovato con un serbatoio traboccante di parole. Non mi è stato difficile metterle in fila, in rima, in ritmo, perché queste emergevano in modo, come dice Dylan, subliminale. Questo fenomeno è proprio, in modo particolare, del primo verso, che irrompe spontaneo in certi momenti di abbassamento del livello di coscienza, nei quali, in modo paradossale, cogli qualcosa, in quello che accade, che la coscienza non coglierebbe mai. Gli altri versi seguono, ma lì ci devi mettere del tuo, cioè un po’ di consapevolezza e di mestiere, di controllo, ma anche di fiducia e di coraggio. E in quel momento vengono in aiuto le parole, le frasi che hai incamerato leggendo, ascoltando la gente parlare, ricordando gesti, colori, situazioni. L’hanno già detto gli antichi: il primo verso lo detta un dio o un daìmon, o una musa, comunque una forza impersonale che ti sovrasta in potenza e a cui devi affidarti, a cui ti devi sottomettere. Devi obbedirgli e scriverlo e poi sei chiamato a portare avanti il tutto. Diventa un dovere e un piacere. Ci sono momenti propizi a questo genere di miracolo. Se sei poeta non puoi esimerti dal compito di afferrare quella sensazione vaga, quelle parole che ti si impongono, dando loro un seguito: te lo chiedono.
Io credo che la poesia sia una sintesi di arte, religione e filosofia. E non è un’arte visiva soltanto. Devi fare appello al tuo orecchio e all’orecchio di chi ti ascolta. Ecco l’importanza, per me, dei cosiddetti reading. Sei lì, con tutto te stesso, sei la tua poesia, in tempo reale. È molto emozionante tutto ciò. E se non emoziona qualcuno, allora, per quel qualcuno lì, la tua non è poesia. Il bello della poesia è la sua libertà. Libertà di disporre le parole come senti; libertà di amarla o di detestarla, di cercarla nelle librerie e nelle letture pubbliche o di ignorarla. La poesia non serve, perché non è una serva. È un atto gratuito. Non ti devi aspettare nulla dalla poesia che scrivi, se non la soddisfazione il godimento mentre la scrivi. Questo ti deve dare la poesia. Il posto della poesia è sempre libero. Se vuoi puoi occuparlo, sui social, sui libri, su fogli di carta volanti, nelle cose che dici agli altri, nel tuo volto, nei tuoi gesti.
La poesia è qualcosa di sacro, un piccolo rito, un insieme di miti, di musica, di devozione. E di umiltà. Scrivi poesie, ma rimani uno qualunque, milioni di uomini, prima di te, dopo di te, meglio di te hanno detto e diranno le cose che dici tu. Loro hanno il loro stile, tu il tuo.
La poesia è tolleranza. Tollera di non essere ascoltata, di non essere pubblicata, di essere derisa, di essere dimenticata. Insomma rilassati e goditi la poesia.
Quello che ho detto della poesia, è quello che più o meno dicono tutti quelli che l’hanno frequentata. I miei sospetti iniziali erano giustificati: su certi argomenti fondamentali è facile dire cose banali. Pensiamo all’amore, per esempio…infatti, riflettendo ancora un po’….la poesia è l’effetto che fa. La sua funzione è di funzionare. Oggi come ieri. Come l’amore. Appunto.
Poesie da La voce dei grandi edifici, Feltrinelli, Milano, 2015
Gomma
Ti sei messa una camicetta di seta
Scollata
Ricavata da un paracadute
Ho indossato l’impermeabile
Da te prediletto
Doppiopetto
Siamo scesi
Lentamente
In basso
Come un minuscolo sasso
Come la neve
Come un errore di battitura
La gomma è morbida
La gomma protegge
Sulla gomma rimbalzi
Senza paura
La gomma si mastica
La gomma si gusta
La gomma non si inghiotte
La gomma dura
Finché non si si sputa
Se non dà
Più sapore
E come l’amore
Poi dura ancora
A volte resta appiccicata
Nei posti più strani
E diventa ancora più dura
Poi diventerà nera
Come la neve gelata
In un inverno eterno
Senza mai primavera.
Un solo verso
E l’hanno messo lì
Girato così
E così sta in piedi
E non cade
Ci voleva l’intuito
Di una colf marocchina
Sto parlando del rasoio
Col manico di corno
Di cervo
Che cadeva
Continuamente dal suo trespolo
D’acciaio
Perché appoggiato
Dal lato sbagliato
Perché c’è solo un verso
In cui le cose funzionano
Non due o tre
O mille
Bisogna che lo capisca anch’io
Che sto parlando ancora con te
Dal lato sbagliato
Di me.
Tangoneon
Astor Piazzolla
Piantala lì di pedalare
Quella fisarmonica sgonfia
Astor Piazzolla
Solitario grimpeur
En danseuse in fuga verso il monte di Venere
Callipigia sui pedali storti
Ti inseguono ansimando i tuoi gregari allacciati
Dando vita a mostruose creature a quattro zampe motrici
Che danzano fidanzati col terrore
Corteggiando certi disastri certi
Mimando agonie d’amore
Che manco tu e il tuo bandoneon
Astor Piazzolla
Distaccati da te
Distaccati dal tutto
Appiccicati alle guance del suono del suolo parquettato
Tastando a tentoni dietro al tempo
Ticchettato dei tacchi
Neanche tu ci stai più dietro
Astor Piazzolla
Con le tue due zeta dl cazzo
Ci stai più dentro al tempo limitato
Delle mosse delle regine dei re degli scacchi matti
Nell’imitazione malriuscita
Dell’amore eterno
Nelle mosse da cavalli
Nei crolli delle torri
Nell’amletica stupidera dell’amoroso
Nell’immobile fesseria dell’appeso
Nell’inutile superbia dell’arcano senza nome
Nella carta a sorpresa del fatale abbandono
Nemmeno tu Astor Piazzolla
Ma non lo vedi?
Piantala lì dunque di pedalare quella fisarmonica
Che si dà arie da Carmen Fatale
Da bicicletta ultraleggera
Guarda lo striscione del Sacro Premio della Montagna
E ammettilo che sei arrivato primo
E a noi gregari del batticuore
Lascia almeno il posto d’onore
Lasciaci pedalare ancora un po’
Con giù la catena
Facci rivedere al rallentatore il film d’amore
Dell’ultima tappa
Che fa già piangere abbastanza
Ma poi basta
Non toccare mai più quei tasti
Astor Piazzolla