Recentemente, la notizia dell’ormai probabile chiusura della più prestigiosa collana di poesia in Italia, Lo Specchio di Mondadori, ha scatenato sui giornali e online un acceso dibattito che, tentando in prima battuta di spiegarne le possibili cause, ha poi finito per essere, come era del resto prevedibile che fosse allargandosi e approfondendosi la questione, un vero e proprio processo alla poesia. E, nella fattispecie, alla poesia contemporanea. Che, per il fatto stesso di trovarsi, per così dire, in fieri, è costretta a subire gli attacchi più crudi, i più facili colpi bassi, senza che una qualche difesa possa essere ragionevolmente imbastita. La poesia dei nostri giorni, accusata da più parti di “marcire su se stessa”, di essere “un’arte senza pubblico” lontana dal mondo reale, ne esce insomma con le ossa rotte. Non necessariamente a torto, del resto.
Ci sembrano innanzitutto condivisibili le osservazioni che sono state fatte in merito alle scelte poco coraggiose o, ancora peggio, rinunciatarie della collana mondadoriana che da un lato passa, come si è già detto, per la più importante in ambito poetico a livello nazionale, mentre di fatto negli ultimi anni ha blindato la pubblicazione a un numero considerevolmente sospetto di poeti di area milanese. Come se oltre il comunque fervido humus poetico del capoluogo lombardo poco o niente ci fosse da scoprire e valorizzare. Scelte discutibili, si diceva, dettate forse più da pigro opportunismo, da chiuso sentimento di contiguità, piuttosto che da ricerca e apertura verso nuove esperienze di aree geografiche marginali, periferiche forse, comunque ‘altre’ rispetto al centro, ma non per questo meno interessanti.
Di questa necessaria e, negli anni Settanta, ancora viva disponibilità all’ascolto che ora, è un dato di fatto, pare mancare, Maria Attanasio (energica poetessa calatina il cui lavoro – sia detto per inciso – meriterebbe di affiancare i nomi più acclamati della collana mondadoriana) ha parlato anni fa e in varie occasioni pubbliche con quella che a prima vista potrebbe essere stata scambiata per semplice nostalgia (Milano, gli anni dell’impegno politico, i lodevoli volumi collettivi di Guanda di cui Raboni era direttore illuminato e, appunto, aperto) e che oggi, con la cessazione dell’attività de Lo Specchio e con le accuse di partigianeria e ‘mafia culturale’ che piovono da ogni parte, sembra invece suonare come un monito: nessun futuro per la poesia se il centro non si pone in ascolto della periferia.
Di periferie, di marginalità geografiche e umane, di una condizione di irredimibile solitudine e, direi, di allontanamento dall’altro, l’altro inteso come centro perduto di qualcosa di irraggiungibile, parla questo libro di Vincenzo Galvagno, Ablativi assoluti, pubblicato per i tipi di Ladolfi editore, con la prefazione di Maria Attanasio che mette bene in luce i punti di forza e l’originalità espressiva del poeta catanese.
Tre le sezioni in cui si articola l’opera, una silloge tematicamente compatta, una sorta di lenta e serrata discesa nell’inferno di una condizione di estraniamento, raccontata e vissuta in prima persona nella parte finale, a cui si arriva però dopo lo scandaglio di altre e numerose solitudini, apparentemente lontane dall’immediato dato biografico dell’autore, e dopo il conciso e denso racconto, nella parte centrale, di un dramma in cinque atti, un amore omosessuale impossibile e tragico nella periferica Giarre di inizi anni Ottanta.
La prima sezione, ‘Poesia e verità’, è la più consistente e densa delle tre. Qui Galvagno descrive personaggi memorabili che vivono ciascuno una peculiare condizione di esclusione. Le poesie assumono così la forma di oscuri monologhi. I personaggi sono donne e uomini condannati all’inadeguatezza, a un’insicurezza di fondo, all’incapacità di relazionarsi con l’altro; tutti più o meno stritolati da una moralità rigida vissuta come ossessione. Non potremmo comprendere le loro azioni, i loro ostinati “non si può”, se ci dimenticassimo del contesto culturale in cui Galvagno sembra farli agire, e cioè la periferia italiana, quella periferia che da un lato assorbe e imita i comportamenti disinibiti e i nuovi valori che il centro metropolitano inevitabilmente irradia, ma che si fa dall’altro scenario delle più violente contraddizioni e dei più crudi conflitti. Nel fuoco di questi conflitti, interiori, psichici, si gioca la poesia di Galvagno.
Un salto temporale e nella seconda sezione, “Turbata quiete di pubblico incanto”, siamo negli anni Ottanta. Con rapide pennellate, l’autore ambienta il dramma di due ragazzi, Giorgio e Antonio, in una Giarre lussureggiante di aranceti e discoteche, ma chiusa e intollerante nei confronti di questo amore omosessuale. Che se scuote da un lato la comunità, se ne scatena le maldicenze e gli insulti, dall’altra non ne mina affatto le certezze che crescono rigogliose “nei vasi cristiani”. Unica soluzione a questo metaforico assedio che l’intero paese opera nei loro confronti, isolandoli, è il suicidio. Anche loro, quindi, sono degli ‘ablativi assoluti’, originale metafora che, prendendo spunto dal famoso costrutto latino, descrive e dà voce a personaggi bloccati, ai margini della società.
Si arriva così alla sezione finale che, come detto, è quella in cui l’attenzione dell’autore più si focalizza sul proprio vissuto, quasi come se le intenzioni di Galvagno fossero state quelle di partire dalla periferia delle solitudini altrui per poi giungere gradualmente al centro della propria e riconoscersi così anche lui “ablativo assoluto” (titolo, appunto, di quest’ultima sezione). Lo stile di Galvagno si fa qui più disteso, in taluni casi quasi prosastico. Mentre il verso sembra aprirsi a una più immediata comprensibilità, le poesie, per contro, adombrano rapporti di coppia improntati a una radicale incomunicabilità (“Le chiavi non aprono/nessuna delle porte”), presentano donne sessualmente insicure (“C’è sempre qualcosa che non torna/se vieni), incostanti (“Parte per cercarmi, poi trova qualcos’altro”), o così inconsistenti e fragili da sfrollarsi sul letto. Si tratta di una sezione brevissima, di appena nove poesie, dove tutto sembra essere cedevole, sul punto di andare in pezzi: ragazzi che attraversano la vita ostentando indifferenza, una famiglia sopra le righe destinata a una inevitabile estinzione, case parzialmente crollate verso cui ci si arrampica e da cui non si riesce più a scendere. Con “Ablativo assoluto” Galvagno descrive il centro del proprio io, e ci mostra che anch’esso, come quello dei personaggi delle prime due sezioni, risulta instabile, bloccato, periferico in quanto separato dall’altro da una universale condanna alla solitudine, che è comune all’uomo, sia esso abitante della più grande metropoli del pianeta o del più oscuro paesino di provincia.
La poesia – e qui torniamo al discorso da cui siamo partiti – per quanto bistrattata, bollata come autoreferenziale e inadeguata, sostengono, a dire le complessità del reale, riesce, se al suo meglio come nel caso di “Ablativi assoluti”, a mostrarci questa condizione di esclusione e solitudine, di cui essa stessa pare addirittura essere vittima. Qui sta la forza della poesia, di essere nel mondo pur restandone apparentemente ai margini. Per raccontarlo meglio, forse?
Ma non vogliamo con questo eludere le accuse di ipertrofia del mercato editoriale dedicato alla poesia che abbiamo letto in questi ultimi giorni. A fronte di chiusure di prestigiose collane a essa dedicate, si riscontra un aumento degli editori a pagamento e della deplorevole pratica del self-publishing che, come sa bene chi la poesia la ama e soprattutto la legge, non può che danneggiare il già sofferente mercato editoriale. La poesia non vive (o forse sarebbe meglio dire non sopravvive) grazie alla quantità ma, eventualmente, alla qualità di ciò che viene proposto al pubblico. E a tal proposito ci è sembrata illuminante la proposta avanzata da Alfonso Berardinelli (http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/07/15/avviso-al-fatto-se-la-collana-di-poesie-mondadori-chiude-perch-non-ci-sono-pi-poeti-pubblicabili___1-v-130868-rubriche_c235.htm), secondo cui il difetto è nel fatto che si creino collane esclusivamente dedicate alla poesia, che poi, in un modo o nell’altro, devono essere riempite, e spesso, sostiene Berardinelli, a discapito dell’effettivo valore di ciò che si pubblica. La sua proposta, che è anche la nostra, è quella di mescolare all’interno della stessa collana libri di prosa e libri di poesia. In tal modo, aggiungiamo noi, si eviterebbe la ghettizzazione della poesia in collane ad essa esclusivamente dedicate, e i poeti (quelli che meritano, non solo quelli che conviene pubblicare) godrebbero forse di una visibilità maggiore, di una inedita centralità.
tre poesie scelte dalla sezione Ablativo assoluto
Invocazione alla Musa
Bisogna tenere un mobile e delicato equilibrio
tra una puntuale fedeltà alla tribù e
le solenni aspettative della musa.
Nick Piombino
C’è sempre qualcosa che non torna
se vieni.
Quello che fai non c’entra niente
con la tua educazione, Salvatrice.
In sala d’attesa verde a fiorellini squallidi
non hai potuto sviluppare nessuna
applicazione dell’intenzione…
Ieri hai fatto l’amore con uno sconosciuto, sei analfabeta.
Cercando qualcosa
che possiamo capire sia io che tu,
ho trovato un tunnel, piccolo,
c’entro?
C’entro. È Sporco.
CORO: “tua madre si arrabbierebbe, tuo padre poi”
Tornare indietro.
I pesci imbrigliati nella rete.
Ragazzi di paese.
*
Ultimamente mi sono svegliato nella tua abitudine
a pensare ad altro sogno
mentre scopiamo.
I rami e le buttane me ne parlano ogni giorno
più numerosi lungo la strada provinciale
che dal mio paesino mi porta a Catania, da te.
erediti da me una fortuna
appolverata, soprammobile da vent’anni circa; ma non importa.
Sono io
qualunque cosa tu
possa immaginare.
Tu chi sei? Mi hai lasciato alla finestra
posso esserti
qualunque
cosa.
*
E venne il diavolo a prendere la mia compagna.
Per poco.
Me la restituisce appena 3 giorni dopo:
bruciata bianca, dita
dei piedi e delle mani senza polpa, tisica.
L’ho presa, si sfrolla sul letto, non la so curare.
(torno ad aspettare)
* in copertina Vincenzo Galvagno nella foto di Antonio Raciti