Chiara Evangelista, classe 1997, studia giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Esordisce nel 2017 con la sua prima raccolta poetica “In medias res” (I Quaderni del Bardo Edizioni), accolta positivamente da poeti come Vivian Lamarque, Giampiero Neri, Tomaso Kemeny, alla quale segue “Più probabile che non” (I Quaderni del Bardo Edizioni). Attualmente collabora con Treccani e con il blog di poesia del “Corriere della Sera” a cura di Ottavio Rossani.
Vi comunico che io non sono un / luogo comune / perché sono fuori luogo / nel comune giogo. / Non gioco ai giochi di ruolo.”, una sua bella poesia, in ‘odor’ caproniano, s’intitola “luoghi comuni, per voi e per introdurre la nostra intervista.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
È difficile ricordare quale sia stata la mia prima poesia. Però ricordo bene quali sono state le mie prime poesie. Ho iniziato a scrivere tra i banchi di scuola. Avrò avuto sedici, diciassette anni… Nelle ore di matematica e fisica, tra i calcoli a penna sul quaderno, smozzicavo i primi versi. Durante l’intervallo, li facevo leggere alle mie amiche. Questi momenti li ricordo con grande tenerezza. I miei versi sono nati a scuola, nel luogo della sperimentazione e della formazione. Mi piace che essi siano legati ad un contesto di crescita e protezione al contempo.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Ho sempre ricercato e apprezzato la musicalità nei versi. Penso che ciò derivi anche dai miei studi di chitarra. Amo Caproni, Palazzeschi, Ungaretti, Sanguineti. La figura dell’Intellettuale è per me motivo di grande aspirazione e ammirazione. Confesso di avere in camera, appese alle pareti, le immagini di Italo Calvino e Pasolini! Sul comodino invece da anni ci sono sempre i libri di Valerio Magrelli e di Mariangela Gualtieri, luci per le ore più buie della notte.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Farsi radice, stipite, reliquia/verde occultamente se non si può/più essere foglia o fiore. Per me Giovanni Raboni è un esempio di voce critica militante. Un Intellettuale che non ha avuto remore nel denunciare e condannare la deriva consumistica della produzione culturale italiana. Eppure questa figura tende sempre a rimanere nell’ombra. I personaggi scomodi danno fastidio.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Senza dubbio la sera. È quella parte della giornata in cui si raddensa l’esistenza e si amplifica ogni percettibile sensazione. Si è più esposti al vento… Ma la scrittura per me funziona a chiamata. A volte quella chiamata tarda ad arrivare. Di conseguenza “quando non puoi creare, puoi imparare”. Così, dopo una giornata passata tra codici civili e penali, la sera per un’ora e mezza mi dedico alla lettura, approfondendo, imparando dai testi altrui e cercando di colmare le mie lacune. Leggere per poter scrivere.
Qual è la tua ‘attuale’ ‘spiegazione/definizione’ di poesia?
La poesia è un dono fatto agli attenti, un dono che implica destino, diceva Paul Celan. Per me è la definizione più bella di poesia. In questi tempi, siamo disattenti, i sentimenti sono monocromi e abbiamo perso la concezione di bellezza. Ecco, la poesia è una chiamata all’attenzione. Una chiamata a cui possono rispondere tutti. Ma chi risponde deve ricordarsi che la scrittura è responsabilità. In questi tempi, la Poesia combatte con gli instapoets, i venditori di fumo e contro l’egocentrismo di versificatori. Per scrivere servono il rispetto della parola e l’autenticità dell’anima.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Paradossalmente la poesia compiuta è quella incompiuta, quella che non smette di trasmettere. Quella che non è perfetta. Dal latino “perfectus”, compiuta, completa, finita. Quella che possiede una radioattività che persiste nel tempo. La poesia compiuta è quella che resiste. E resiste perché ha ancora tanto da dire, in quanto non completa. Non compiuta.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
La poesia è l’incontro con la parola, direbbe Mariangela Gualtieri. E concordo profondamente. La parola è un deposito, un substrato di significati. Di conseguenza è complessa. Il termina “complesso” deriva dal latino “complexus”, ovvero “tenuto insieme”. La parola è quindi un bacino di significati che si celano sotto il segno grafico.
La poesia è per eccellenza il luogo dove s’incontra la parola. Nella prosa invece il significato della parola è selezionato dal contesto storico, narrativo e linguistico. Di conseguenza vi è una restrizione dell’area semantica che rende la prosa più immediata e fruibile. La poesia può “solleticare” il palato del significato.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Mi piacerebbe che la poesia tornasse ad aver un ruolo più impegnato civilmente. I poeti dovrebbero dare l’allarme. Non essere rinchiusi nelle proprie torri d’avorio…
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Non andartene docile in quella buonanotte.
Infuria, infuria contro il morire della luce.
(Dylan Thomas)
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere tre tue poesie dal più recente libro Più probabile che non – I Quaderni del Bardo, 2019 – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.
AVRAI UNA DONNA CON LE OCCHIAIE
Avrai una donna con le occhiaie,
autobiografie di battaglie
vissute tra le rime delle palpebre
e profondissime tenebre.
Avrai una donna con le occhiaie,
cronologie delle sue giornate
passate a riemergere da macerie.
Avrai una donna con le occhiaie,
abbazie di forza e bellezza,
brezza in vecchie nebbie.
INTELLIGENTI PAUCA
Intelligenti pauca.
A poco a poco ho la voce rauca
nello sperare che qualcuno traduca
quanto trasuda
da questa mano cruda.
Intelligenti pauca.
A poco a poco ho la voce rauca
nel gridare quanto mi seduca
una parola nuda che difendo da
barracuda.
Intelligenti pauca.
A poco a poco ho la voce rauca
nello spiegare che se non mi trovate
sono nel Triangolo delle Bermuda.
LE STALATTITI
La gravità non ci spaventa,
è una discesa lenta
dalla placenta
della grotta
ma non importa…
Siamo il bianco
del passato,
del calcare
colato e cristallizzato,
di acqua e carbonato,
trasudato e infiltrato
dall’incavo.
Siamo il bianco
dell’accumularsi
di anni carsici e corrosivi
ma, se non si fossero susseguiti,
non saremmo stalattiti.
Più probabile che non è lo standard probatorio del processo civile. La traslazione del principio giuridico nel mio lavoro letterario nasce dall’esigenza di costruire, dalla consapevolezza che ogni passo è una scelta continua a cui son chiamata a partecipare. E alcune di queste scelte si son trasformate in probabilità più elevate di certezza. Probabilità di certezza, non verità assolute. Ecco perché “più probabile che non”. Sono troppo giovane per l’irreversibilità e per sentenze definitive. Penso che scrivere questo libro sia stato un tentativo di autodeterminazione, un modo per iniziare a diventare me. Come direbbe Franzen, in fondo la scrittura è diventare se stessi.