I nervi della poesia e la sua paradossale propulsione a dire: Fabrizio Bajec e Antonio Bux
In questa puntata di Chiedimi ancora ad essere messi a confronto sono due giovani e attivi poeti.
Per Fabrizio Bajec lo spettacolo delle ingiustizie scorre parallelo alla placidità delle cose, tra impotenza e impermanenza, che però non spengono uno slancio profondo. In lui si intravede «Nessuna musa e molto più gli stessi nervi!», perché, a suo dire, «cerco di pensare il collettivo, di includerlo nella mia produzione in versi, che è invece frutto di un allontanamento, e alla base della quale c’è ben poca spartizione».
In Antonio Bux si avverte (dichiarata) la tendenza a modulare l’esperienza poetica che mira all’abdicazione all’invisibile, esposta al rischio della propria sparizione: «Probabilmente ciò che mi muove alla scrittura e il voler arrivare alla mia origine attraverso l’espiazione del mio non appartenermi», dice. Tra le oscurità che sente c’è quella «dell’intangibile sovrumano, che è la natura: così oscura, che pare non esistere se non quando sogniamo».
Buona lettura!
Rossella Pretto e Marco Sonzogni
L’ultima opera in versi di Fabrizio Bajec è La collaborazione (Marcos y Marcos 2018); Transizione (Unicolpli, 2020) è il primo romanzo, appena uscito. L’ultima raccolta poetica di Antonio Bux è anch’esso fresco di stampa: La diga ombra (Nottetempo 2020).
CINQUE DOMANDE AI POETI: FABRIZIO BAJEC (1975)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Direi che negli ultimi anni c’è sempre meno qualcuno e molto più qualcosa che s’innerva nella mia scrittura. Nessuna musa e molto più gli stessi nervi! Lo spettacolo delle ingiustizie, o allora, all’estremo opposto, quello della placidità di ciò che le supera tutte: le piante, un neonato, un animale. Vi è in loro una resa altrettanto commovente della rivolta di donne e uomini che si raggruppano. Io mi trovo in mezzo a questa contraddizione. Per citare due miei titoli, sono tutt’ora a metà strada tra Entrare nel vuoto (Con-fine, 2011) e La collaborazione (Marcos y Marcos, 2018). Mi stimolano cose insopportabili quasi quanto il miracolo di chi riesce a sopportarle.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
Quella è una canzone struggente e mi fa pensare in maniera indiretta ai motivi di cui sopra. Da un lato l’entusiasmo per le nuove relazioni, le azioni di gruppo, la potenza di chi non ha più niente da perdere (si vedano le attuali rivolte in Cile, Libano, Iraq, e Ecuador); dall’altra l’impotenza degli europei, la disperazione anche nei rapporti più intimi. Una delle cose più nere (forse la più oscura) su cui mi è toccato scrivere è la morte di mia madre (vedi Gli ultimi, Transeuropa, 2009, poi ripreso in Con te, senza Dio/Loin de Dieu, près de toi, poemetto in versione bilingue, L’âge d’homme, 2013). Come dicevo nella postfazione della seconda edizione di quella suite, per me il mondo era finito, non aveva più gravità. Allora credo mi sia uscito un altro tono per parlare di quell’evento, quell’agonia, un tono che non ho più ritrovato dopo. Era anche un testo molto lirico e sfacciato, pur essendo trattenuto, cioè non lacrimevole.
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Una cosa che penso di aver imparato ormai è che non vi è nulla di permanente, in nessuno di noi. Ciò non vuol dire che io non possa sorprendermi delle particolarità di ciascuno o di una scrittura lontana da quello che cerco. Anche i gusti cambiano, e non rileggo gli stessi poeti stimati a vent’anni con lo stesso entusiasmo. Un’eccezione è Cesar Vallejo, perché i suoi versi mi danno ancora i brividi. Citerò una poesia che potremmo anche inserire nel contesto della guerra civile in Spagna:
Massa
Fine della battaglia,
è morto il combattente, ed ecco da lui un uomo
a dirgli: «Non morire! T’amo tanto!».
Ma, ahimè, la salma continuò a morire.
Si avvicinarono due e gli ripeterono:
«Non ci lasciare! Forza! Torna in vita!»
Ma, ahimè, la salma continuò a morire.
Corsero da lui venti, cento, mille, ottomila
gridando: «Tanto amore, e non poter niente contro la morte!»
Ma, ahimè, la salma continuò a morire.
Attorno a lui milioni di individui,
che insieme pregano: «Resta, fratello!»
Ma, ahimè, la salma continuò a morire.
Allora, tutti gli uomini della terra
furono intorno; li vide la salma triste, emozionata;
si rialzò dunque lentamente,
abbracciò il primo uomo: e camminò…
Traduzione di Alessio Casalini
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Mi viene in mente l’energia percussiva dei primi libri di William Cliff, il poeta francofono che ho tradotto con più costanza, il mio banco di prova più solido. La metrica gli serviva a questo. Certo, potrei citare anche un esempio molto distante, Amelia Rosselli, che mi impressionò parecchio tra i venti e i trent’anni. Lei aveva energia verbale da vendere e nessuna concessione fatta al lettore, nel senso della facilità e chiarezza del “messaggio”. Invece, spesso la poesia che va verso lo slam non mi prende la testa, forse perché separo molto la poesia dalla canzone. Eppure ho desiderato a lungo che i poeti avessero l’energia delle rock star, senza bisogno di salire su un palco però. Per questo trovo affascinante la poesia degli anni ’70, sia in Italia che negli USA. Penso a certi ritornelli di Anne Sexton.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Ti do un inedito, pur considerando che ogni testo mi rappresenta. Probabilmente dall’ultimo libro pubblicato, cerco di pensare il collettivo, di includerlo nella mia produzione in versi, che è invece frutto di un allontanamento e alla base della quale c’è ben poca spartizione. Pensare al collettivo quando si scrive in versi è intellettualmente desueto e illusorio su un piano antropologico. Ma tant’è.
ora non ci vedi più
chiedi un po’ di collirio
muoviti a destra a sinistra
fa ballare la nerchia
sei nudo e t’interrogano
chi ti rappresenta?
chi segui alle prossime elezioni?
dici nessuno
procedo con autonomia
allora la stella sul braccio?
questa questa me la sono fatta
con un compasso e non mi tradisce
non ho nessuno da tradire vedete
perdete il vostro tempo
dopo aver affaticato le loro mani
ti riconsegnano alla natura
su una provinciale quindi
piano discendi tra gli arbusti
ritrovi la via della comune
CINQUE DOMANDE AI POETI: ANTONIO BUX (1982)
1.
In uno dei mottetti per la sua musa girasole, Clizia, Eugenio Montale parla di «segno» che «s’innerva» e lo descrive con queste parole: «sangue tuo nelle mie vene». Cosa o chi s’innerva in te arrivando a scorrere nelle vene della tua scrittura?
Nella mia scrittura poetica confluiscono le ragioni del mio essere in vita, così come l’irragionevole dire che è la vita stessa di un essere umano. Da questo sovraccarico – polo positivo che è esistere, e polo negativo che è voler esserci – nasce l’idiosincrasia di scrivere/parlare, che altro non è che un voler dare testimonianza di quel segno, spesso intangibile, che muove l’esistenza dentro di noi e ce la fa esprimere attraverso suoni e sensazioni. Da qui il pretesto, naturalissimo, del confronto con l’altro, con ciò che ci è occulto e che, proprio per questo, desideriamo sfiorare. Da qui l’immanenza. Probabilmente ciò che mi muove alla scrittura e il voler arrivare alla mia origine attraverso l’espiazione del mio non appartenermi.
2.
In una delle canzoni più celebri interpretate da Johnny Cash, the man in black dice di vedere un’oscurità («I see a darkness»). Quale oscurità ti è capitato di vedere e come ne hai scritto?
L’oscurità delle piccole cose, come l’oscura calma di una madre che paziente sbriga le faccende domestiche per anni; in quel martirio quotidiano lei ha gioia di esistere, non di vivere, sia chiaro: lei va avanti per essere sedimento per ciò che ha generato; ma anche l’oscurità dell’intangibile sovrumano, che è la natura: così oscura, che pare non esistere se non quando sogniamo. Come altrimenti spiegare il cielo, a livello poetico, se non uno specchio scuro che non ci riflette?
3.
Nel discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan, ricordando il suo primo punto di riferimento artistico, l’amico Buddy Holly, dice che sembrava esserci in Buddy qualcosa di permanente («something about him seemed permanent») e che riusciva a trasmettere qualcosa che gli faceva venire i brividi («he transmitted something» … «and it gave me the chills»). C’è un poeta che ti fa sentire così quando lo leggi e perché?
Ce n’è più di uno. Sarebbe drastico fare nomi. Credo che l’eterno permanere faccia parte di quei testi scritti senza più volontà di testimonianza, bensì più per esigenza di sparizione. Sicuramente poeti come la Dickinson e Rilke hanno questo, oppure, per restare in Italia, non si può non pensare a Leopardi. Se vogliamo pensare ad un poeta italiano del Novecento, per me Dino Campana resta un grande esempio. Una poetessa? Amelia Rosselli, con quella sua totale aderenza all’impossibile di esistere. Non vorrei essere ripetitivo, ma il vero poeta non punta ad esserci, bensì ad esistere sparendo.
4.
Un altro Premio Nobel per la letteratura, Seamus Heaney, ha detto che Eminem ha creato un senso di ciò che è possibile iniettando un voltaggio nella sua generazione («he has created a sense of what is possible. He has sent a voltage around his generation») non soltanto con il suo comportamento sovversivo ma anche attraverso la sua energia verbale («He has done this not just through his subversive attitude but also his verbal energy»). C’è stato/c’è un poeta che per te corrisponde a questo identikit?
Sicuramente Leopoldo María Panero, mi pare in questo senso uno tra i più sovversivi che abbia letto tra i contemporanei. Nella sua “Torre di Babele sbriciolata dal sogno” hanno convissuto e sono confluite energie – tanto demoniache quanto naturali – che hanno generato nel poeta una sorta di unicum belante, un totem della rigenerazione di matrice nichilista. Se devo pensare ad un riferimento italiano, non potrei non pensare a Luigi Di Ruscio. Già il suo essere poeta è stata pura sovversione della poesia stessa che, più forte della fabbrica, ha fabbricato in Di Ruscio i mostri che Di Ruscio ogni giorno vedeva.
5.
Scegli una tua poesia e ci spieghi perché ti rappresenta?
Scelgo una poesia tratta dal mio libro (Sasso, carta e forbici, Avagliano Editore, Roma 2018). Titolo: Il condor semantico. Scelgo questa perché rappresenta bene ciò che per me è la parola, o meglio la poesia, con le sue necessarie propulsioni a dire così come le sue minacce (ecco perché il condor). Forse, ritornando così alla prima domanda, è questo il solo segno, quell’«unica parola a cui tenevo»: proprio quella che non saprò mai finché campo.
Il condor semantico
Ricordo la notte, il condor
semantico appollaiato sui rami
era il mio esistere (e quanto tempo
per fare la carne a brandelli,
quanto tempo per cuocere
il fegato, quanto a diminuire le cellule,
gli atomi del sentimento); le sue ali
ciò che più temevo, aprirsi
in uno spasmo e quegli artigli dire
la tua carcassa sarà il solo verbo.
Poi la notte cominciò a parlare,
la notte divenuta tappeto,
e le parole si stendevano, curve,
con le ali del condor fiancheggiare
(e io scrivevo che non volevo esistere
se io, servo del condor volavo,
ma soltanto tra parole); così la notte
mi piegava mentre il becco
del condor in picchiata mordeva
l’unica parola a cui tenevo.
Avevo dieci anni e il condor
mi programmava le parole
(il condor che vedevo sopra le teste,
il condor quando saliva su mia madre,
e sulla maestra, alle sue spalle,
dalle braccia le cadevano le piume).
Da quella notte cominciai a cancellare,
tenni solo una parola, il condor non la sa,
Nemmeno io so quale sia.
Ma vorrei anche citare una poesia dal mio ultimissimo libro, “La diga ombra”, appena pubblicato dalle edizioni Nottetempo. Ci tengo a citarla perché rappresenta quel continuum dell’esistenza terrena, anche dopo la morte. E il potere della poesia penso sia proprio quello di testimoniare questo passaggio senza tempo né spazio, ma eternamente di tutti per sempre.
***
Ma quando tu muori, i fiori continuano,
anche se sanno il dolore che eri;
girano su loro stessi il sole, i suoi raggi,
anche se tu riposi, anche se tu li senti.
Ma quando eri viva, dov’erano i fiori?
Forse nel tuo stare al mondo piantata,
raccolta nel fuoco, ma senza ragione.
Come fosse rumore accadere,
il seme rimasto, e tu che sei terra
ti muovi, aspetti i fiori vederti.