parola d’autore
Ciclica è il nostro tempo. Il tempo che attraversiamo e perdiamo, trascinando colpa e bellezza per poter ricominciare ogni volta. È la mia visione-ossessione del cerchio, che si nutre di incontri e alimenta una ricerca che vorrei sempre corale, percepibile – l’ego spinto nell’angolo – nel sottile dialogo tra i testi. In epigrafe alla sezione Ciclica campeggiano i versi di Saramago: quando tacerà la personale voce/il coro occuperà il posto reso vuoto dall’assenza.
Ciclica è la mia sete ricorrente ondulante di senso, resa più acuta e bruciante per aver io sfiorato un giorno la Soglia ultima, quella che ferocemente spinge a filtrare l’essenza del vivere e del pensare, quella che ci fa guardare a quel che davvero di noi potrà restare di umano e benevolo, a riconoscere la pienezza dell’essere insieme, del convivere pacificati. Questo sostare sul precipizio fa sentire con limpidezza le ragioni primordiali del vivere e del morire, la loro ferma indicazione a farci protettori di un equilibrio che ci salvi tutti, umani e natura.
E alla ricerca di senso, che procede per onde, per lampi – come avviene in poesia – spinge inesorabilmente questo ripetersi incessante dell’errore, questo nostro continuare ad essere schiavi dei contrasti, questo sentirci espropriati dell’umano, dell’incontro vero, oscurato dalle nuove divinità mercificazione-individualismo-corsa ipertecnologica.
Ciclica è pure l’augurio che gli urti inevitabili della comunicazione larga tra le genti diventino urti gentili, spingendoci ad invertire la tendenza alla disumanizzazione, a governare le nuove ibride identità con l’antico gesto ospitale e nuove possibili lungimiranti soluzioni. È il desiderio di nuove albe, nuove rifondazioni, nel pensiero del legame che tiene unite tutte le dimensioni dell’umano, che è la consapevolezza di essere tutti, fianco a fianco, in attesa dell’imperscrutabile.
dalla sezione Techne
scelgo mi piace e condivido
soltanto se
la posa non è teatrale se intravedo
il capo rasato sotto la pioggia
la stanza fiammeggiare
allontanarsi il punto cieco
l’urto mi chiedi l’urto ma
sei virtuale un’ipotesi una
finestra sul vuoto poi non so
quanto davvero vuoi
farti plurale
dimmi se chiami per conoscermi o solo
per riconoscerti
chiami chiami dai tetti
da eccentriche lune chiami da
nuvole pure dal basso chiami
voce di fango che mi macchia il petto
segna la fronte pure
si fa lacrima cristallo che
taglia il respiro
stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme
malferme sagome stordite da mille nomi
la lingua disartícola e l’audio
sarebbe comprensibile soltanto se
intorno il rumore attutisse
se fossimo
puro pensiero silenziopietra
statue serene dal sorriso arcaico
ai piedi un cartiglio e
lampi negli occhi
*
*
dalla sezione Angelezze
alberi
non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza
dispiegate nei rami
gli alberi sono bestie mitiche
invase dall’istinto fieri suggerimenti
restare accanto
non per generosità ma per pienezza
— intorno l’aria splende in rito di purità —
la terra tenere salda
perché sia quiete ai vivi
gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita
prima di descrivere la morte
s’innalzano
con quei loro nomi di messaggeri
le vie tracciate sulle nervature
lo sgolare dei frutti
sii migliore del tuo tempo dicono
devo
far correre quest’idea sulla tua fronte
devo
e tu su altra fronte ancora
e ancora prima
che precipiti il sole
*
*
dalla sezione Urti gentili
urti gentili
mi manca la lingua mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo o forse
una malinconia residua della nascita
ingorgo che resiste
allo sperpero del vivere
furore dei cieli di una volta
grida bianche dei dolmen che insistono
nel vedere il mattino sorgere
sulle rovine ogni volta
qualunque sia l’inclinazione della luce
mi manca quella strana paura
prima di ogni viaggio
come un sottile rifiuto della distanza
come di albero che impone alle radici
un limite all’espandersi e si concentra
sulla cura dei frutti
pure amo
tutto questo calpestio di genti nella città
l’impasto lento di animelingue
il rompersi dei meridiani l’inarcarsi dei ponti per
urti gentili
questo annodarci annodando
i cesti della fiducia con antiche dita
*
*
dalla sezione Ciclica
revisioni
errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila
con occhi di cane a implorare o — muso in alto — ad abbaiare
urgenza del mutare
un grido-scheggia che trapassi la retina
apra varchi inattesi
un tempuscolo rovente che accenda
la permanenza stabile del coro
torre inattaccabile dove
le lingue si traducono solo sfiorandosi
così i fallimenti possono mutare
in categorie di seduzione
come la catena trasmessa dal seme al frutto
nonostante il marciume il trambusto dei rami
*
*
pagine ancora per voltare pagina
ancora
un sangue abbiamo consapevole
di voler coagulare come fosse troppo nobile
per l’uscita selvaggia dalla vena
umori fertili abbiamo
che premono sulla fioritura
e profili aggraziati a chiamare
la tenerezza degli urti le gratitudini
abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura
ma nell’aggrottare appaiono onde
un oceano che trascina
il mio corrimano di legno tentativi di ponti
capre e pastori erranti (hanno il nostro profilo)
pani tastiere reti
incastrate tra rami di olivo e note di sassofono
e — a ondate — pagine
immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)
pagine ancora
per voltare pagina