Claudio Pozzani, “la poesia è (o almeno dovrebbe essere) ecologia della parola”.

anteprima “Spalancati spazi. Poesie 1995 – 2016”

Claudio Pozzani (nella foto di Dino Ignani), poeta, romanziere e artista è nato a Genova nel 1961. Apprezzato in Italia e all’estero per le sue performance poetiche nei più importanti festival letterari a livello internazionale, le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre 10 lingue. Nel 1983 ha fondato il “Circolo dei Viaggiatori nel Tempo”, un’associazione culturale che dirige tuttora e che si occupa di arte e in particolare di poesia e letteratura, organizzando manifestazioni internazionali in Italia e all’estero. Tra queste, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole spalancate”, considerato l’evento di poesia più importante in Italia oltre che il più longevo, essendo stato creato nel 1995 e altri festival in Belgio, Francia, Giappone, Germania e Finlandia. Dal 2001 dirige la Stanza della Poesia di Palazzo Ducale, che ospita oltre 150 eventi ogni anno. Tra i suoi lavori editi in Italia, il CD di poesia e musica “La marcia dell’ombra” (2012). In occasione dell’uscita del volume “Spalancati spazi – Poesie 1995 – 2016”, Passigli editore (2017), del quale riportiamo in anteprima tre poesie, gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Mi piace la presenza di “attuale” nella domanda, perché esistono sempre due significati e definizioni in tutte le cose, quindi anche per la poesia: c’è una convinzione fissa e immutabile che è la mia cifra e poggia sui miei valori e poi la variabile del mio stato d’animo e dello Zeitgeist. Per quanto riguarda la poesia penso in generale che essa sia “linguaggio in orbita”, come diceva Heaney, che per me significa essere l’arte di definire il visibile e l’invisibile usando la parola al suo massimo. Per la componente “attuale”, aggiungerei che ora la poesia è (o almeno dovrebbe essere) ecologia della parola, una ribellione alla povertà del linguaggio e all’inquinamento acustico, grafico, visuale, sonoro. Una rivincita dei sensi e del senso, insomma.

La forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica? Quest’ultima per preservare la propria efficacia comunicativa deve ‘esprimersi’ usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Senza dubbio la forma ha un ruolo decisivo. Nei poeti è più importante la propria cifra stilistica degli argomenti trattati, che in fondo sono sempre gli stessi da secoli. Nella poesia molto spesso il significato è anche nella forma, nel modo in cui ti esprimi. Ovviamente sto parlando di forme che ognuno ricerca e adatta alla propria scrittura, non delle cosiddette forme chiuse. Penso che la poesia debba avere un proprio ritmo e gioco d’assonanze e sonorità senza ricorrere per forza ad artifici metrici o rime. Credo inoltre che la poesia sia atemporale e aspaziale e quindi possa essere indifferente alle contemporaneità dei linguaggi: molti poeti dei secoli scorsi sono estremamente più diretti e comprensibili di alcuni onanismi sperimentali di autori degli ultimi 50 anni. È vero altresì che i testi legati troppo all’attualità sociale o politica di un Paese invecchiano rapidamente e spesso non lasciano traccia se non per studi storiografici. Registro infine che la tendenza lirico-musicale più popolare degli ultimi anni, ossia il rap, si basa su due elementi che erano stati messi al bando dalla poesia del Novecento: la metrica e la rima, a riprova che non esiste un “tempo” rettilineo in poesia ma scandito da corsi e ricorsi.

Qual è il momento in cui una poesia può dirsi compiuta?
Quando ti senti soddisfatto. Come in un pranzo, in un gioco, in un atto sessuale capisci di aver raggiunto il punto d’equilibrio di piacere e soddisfazione e ogni cosa in più sarebbe di troppo. È ovvio che nessuna opera d’arte possa ritenersi compiuta in assoluto se non dall’artista stesso. Per lo spettatore e fruitore può esserci sempre la sensazione che quel finale poteva essere diverso, che quella figura poteva essere predominante, ma è l’artista a decidere. Non sono d’accordo con quanti affermano che la poesia (l’opera d’arte in generale) sia del lettore quanto dell’autore: per ritornare all’esempio gastronomico, quando vai al ristorante è il cuoco che decide gusto, sapidità, colore, profumo, quantità della pietanza che stai mangiando. Tu ti nutri di quell’opera e diventa parte di te sottoforma di proteine, vitamine eccetera. Così è per l’arte e per la poesia: anche se l’opera che leggi, vedi o ascolti entra in te e vi alberga per sempre è altra cosa rispetto alla creazione di qualcosa che non esisteva nel mondo fino a quando l’autore ha deciso: “è finita!”.

Tre poesie da “Spalancati spazi – Poesie 1995 – 2016”
Passigli editore, 2017.

DOMANDE SILENTI

Spiegami cosa vuol dire
indossare la notte
e vedere il mondo
attraverso due stelle bollenti
Cosa si proverà a essere il vento
che le tue mani di foglia
modellano ad ogni gesto?
Già le onde del lago
mosse dal silenzio di questa sera
aspettano le tue parole
per iniziare a sognare.

UN GIORNO MI RITROVERETE

Un giorno mi ritroverete
a giocare
con i gabbiani
sul declivio di Ostenda
o con i loro colleghi
seduto sui foruncoli pietrosi
di Leça da Palmeira
Un giorno mi ritroverete
a bussare inutilmente
al teatro abbandonato
di Ulica Piotrkowska
o a camminare
sbandando da un muro all’altro
nelle calle della Candelaria
Un giorno mi ritroverete
ad ascoltare per ore intere
la sinfonia in re bemolle
del vento settembrino
nei caruggi o nei barrios
Un giorno mi ritroverete
a contare i mattoni
delle chiese di Bruges
o a farmi insultare
per le strade di Oslo.
Un giorno mi ritroverete.
Per adesso, smettete di cercarmi.

HO TOLTO CRISTO

Ho tolto Cristo
dal crocifisso
e ci ho messo i tuoi occhi

Sopra il mio letto
così
avrò due perenni torce
a rischiarare i libri
delle mie notti insonni

 

 

 

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