MILAZZO_Uomini e insetti su l'estroverso

l’autore racconta

«Spara. Sei felice?» chiede Bobo.
«Di che?»
«Di avere scoperto tutte quelle cose meravigliose su tua madre, su Aleister, e su Armando naturalmente.»
«La verità, Bobo, se proprio vuoi saperla, è che io non ci credo. Non credo a una sola parola dei loro racconti» dice a Bobo, che si acciglia. «Vuoi che ti dica cosa penso di Armando? Alla luce delle recenti rivelazioni, lo immagino come un omosessuale represso. Vuoi sapere il mio punto di vista su “Miss Su”? Vedo mia madre come una maniaca depressiva con istinti suicidari. E Aleister? Un inguaribile sognatore, un po’ del tipo bohémien mitteleuropeo, arrivato con più di un secolo di ritardo all’appuntamento con la storia.»
«Non puoi essere così cinico» lo rimprovera Bobo.
«Che alternative ho? Dovrei credere al romanzo familiare? Al bisogno di fare dei genitori materia letteraria? Come vuole Gertrude, come nella trama del diario di Miss Su? Dovrei credere alle invenzioni letterarie di Aleister? Al racconto di sé con cui ognuno di loro ha sublimato le proprie piccolezze?»
«Perché no?»
Alla fine, riflette Andrea, è solo la vecchia dialettica fra il credere che ci sia qualcosa, qui, adesso, nascosto fra le pieghe di questo divano, qualcosa di importante che forse ci parla e dobbiamo solo prestare attenzione e ascoltare; e l’amara consapevolezza che non ci sia nulla. Null’altro che questo. Io e Bobo seduti a parlare e bere birra. E che questo nulla sia tutto quello che c’è.
«Perché non è nulla. Se spegni le chiacchiere, se silenzi i loro racconti sentimentali, non resta nulla. E anche di queste nostre chiacchiere non resterà nulla. Un istante ci siamo io e te che parliamo. E un istante dopo c’è un divano e una tv accesa in una stanza vuota.»
«Non mi pare esattamente nulla questo momento insieme. A me piace. E per me è qualcosa. Ed evito di spingermi oltre e dire che invece è molto. Al contrario di te, quei tre, Armando, Aleister e tua madre non si sono risparmiati. Si sono amati. E ti hanno amato. Ti pare poco?»
«Forse. O forse hanno creduto di farlo così intensamente da riuscire quasi a convincere loro stessi e, a tratti, perfino me.»
«C’è differenza?»
«Fra amare e credere di amare?» chiede Andrea retorico.
«Sì.»
«Mi pare che sia una differenza che importa a pochi.»

Quasi a conclusione del mio romanzo, questo dialogo (un estratto di “Uomini e insetti”, edizioni Mondadori) fra il protagonista Andrea e il suo ultimo amante, Bobo, mi aiuta a dire qualcosa sul tema che mi avete proposto.
Cos’è scrivere?
Ovviamente non esiste una definizione della scrittura, né può esistere. Per la scrittura vale un po’ quello che vale per Dio nell’antico testamento: a Mosé che gli chiede il nome (quindi di definire la sua essenza, la sua identità), Dio risponde: “io sono colui che sono”.
Come Dio, la scrittura si predica di se stessa. E questo è anche il suo mistero, oltre che la sua più probabile definizione. Per conseguenza, chi scrive veste di parole un silenzio che pare voler restare tale. La scrittura in questo senso è uno scandalo, un atto di follia. E di arroganza, certo. Perché si sostituisce alla realtà per inventarne un’altra. Si potrebbe dire, con una battuta, che se il mondo fosse diverso, diciamo migliore, la scrittura non esisterebbe. È una provocazione ovviamente, ma la scrittura poggia sull’imperfezione dell’esistere. A partire dall’attacco biblico che comincia a narrare là dove i progenitori edenici inciampano, fino al romanzo contemporaneo, la scrittura cala come un vampiro sul corpo agonizzante dell’esistenza e, nella migliore delle sue forme, ne rivela il senso di tragica bellezza.
Andrea, nel mio “Uomini e insetti”, avverte tutto questo. In particolare, Andrea sente l’inganno del romanzo biografico, cioè quella inesausta e inesauribile attitudine a raccontare i propri affetti di cui siamo vittima un po’ tutti. (Oggi, in modo esponenziale, complici i social media che ci impongono, per esistere nella realtà virtuale, di costruire una narrazione continua di noi stessi). Andrea sospetta che dietro il racconto amoroso che facciamo di noi e dei nostri amanti, delle nostre vicende sentimentali ci sia ben poco, che cioè, di nuovo, la realtà sia più misera e scabra di quanto proviamo a raccontarcela, e che per sopravviverle tentiamo qualunque innesco narrativo. Nel momento in cui le memorie si compongono per formare un racconto, crede Andrea, tradiamo e superiamo (?) le miserie dell’esistenza.
Secondo quest’approccio, quindi, la scrittura diventa uno specchio deformante e insieme salvifico, una fede, una preghiera, un argine alla vertigine di vuoto che ci coglie se ci poniamo in modo intellettualmente onesto davanti all’esistenza.
Andrea arriva a sentire il limite interno della narrazione che è insito nella traslazione della “sospensione dell’incredulità” dal piano del racconto a quello della vita vissuta. Sente cioè che a forza di fingere che il racconto sia vero si finisce, spesso, per credere che lo sia veramente e che invece sia “incredibile” il piano del reale.
La scrittura, la capacità di fare narrazione, diventa così una religione (e non può che essere così in una cultura come quella occidentale che da millenni sovrappone Logos e divino), un sistema di credenza, al quale sacrifichiamo la realtà piegandola alle esigenze del racconto.
In “Uomini e insetti” si racconta di una guerra di sentimenti e di parole, in cui da una parte c’è il delizioso piacere di perdersi nell’invenzione amorosa e dall’altro il sospetto che amare sia nient’altro che uno scivolare, pur dolce, verso la follia e il non senso. Verso, appunto, la finzione del racconto.

«C’è differenza?»
«Fra amare e credere di amare?» chiede Andrea retorico.
«Sì.»
«Mi pare che sia una differenza che importa a pochi.»

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