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 C’è tanto fuoco nel libro di Federico Scaramuccia. Versi che ritraggono un’apnea (filmica?) di masse d’uomini in fuga quel fatidico undici settembre, giorno che ha rivoltato le certezze dell’uomo occidentale, risvegliando paure primarie e diffidenza nell’ordine sociale. E il castigo oculare della visione televisiva, con tanto di replay, ralenti, ripetizione ossessiva delle immagini, non ci fa forse venire in mente il tormento di Prometeo condannato ogni volta a farsi mangiare il fegato da un’aquila? Con la differenza che, per lo spettatore al quale “la tv ha mutato vita sensoriale e processi mentali” (McLuhan), il bombardamento reiterato raramente coincide con una presa di coscienza rafforzata, piuttosto si ha una progressiva anestetizzazione del pensiero critico, intorpidimento dell’istintivo senso di repulsione che dovrebbe essere l’anticamera di una ribellione collettiva. Il poeta utilizza in maniera appropriata l’immagine della lacrima (cfr. Nota al testo, p. 35),   secrezione liquida risultato di un patimento comunque visivo, per chi, come la maggior parte di noi, ha “vissuto” in maniera indiretta la tragedia. L’organizzazione del testo, l’utilizzo del coro, risponde all’esigenza di resa plurale del caos, della “reazione a catena” come la definisce l’autore. Ci si muove per compatti “frammenti” di versi in terzine o distici a rima baciata, dal martellamento sonoro, istantanee di vite che fuoriescono costantemente dal quadro (e dall’obiettivo). Scaramuccia pare voglia suggerirci l’idea di uno sconvolgimento cosmico oltre che umano, con il disequilibro degli elementi, apocalisse di cielo e terra: «è il giorno che si annebbia e si dissolve / è la sua luce svanita che soffre» (p. 17),  «sono la vita che va via per sempre / sono la vita spezzata nel cielo» (p.19),   «immondo rimane un silenzio / e in grembo giù in fondo una fame / le fiamme che dentro confondono» (p. 21). Polvere, cenere, macerie, bocche che gridano e digrignano, un infernale campo devastato sul quale aleggia  «un vento largo che inghiotte che lega / che se ne fotte anzi che se ne frega / che soffia e incalza finché non si scuce / finché non si rompe in rombi di luce» (p. 31). Attraverso un lessico che sembra trovare un collante precario, provvisorio, in termini e nomi legati alla sfera aerea, celeste (ali, volo, cielo, azzurro, nuvola, aria, stelle, colomba, rondine) contrapposto  a una disperazione tutta umana e una fame dissolutrice, “ventrale”, Scaramuccia tiene lontana la retorica riuscendo a trasmettere soprattutto il senso di terrore dilagante con un rigore metrico “medievale” e una parola netta, aderente alla materia incandescente che tratta.

 

 

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