l’étranger
Il cavaliere dell’anima – così Ferruccio Masini definì Hermann Hesse – è noto ai lettori come l’autore di Peter Camenzind, Knulp, Demian e dell’osannato Siddharta. Romanzi di formazione, storie di gioventù proiettate nella ricerca del selbst, di un sé che trova ne Il pellegrinaggio in Oriente la sua perfetta formula espressiva. Hesse fu raffinato saggista (Una biblioteca della letteratura universale), aforista e pittore di acquarelli. Dietro una personalità così piena e sfaccettata, ci rammenta la crono-biografia, troviamo il retroterra di un’anima insofferente. Nel 1917 ebbe un esaurimento nervoso, in seguito si affidò alle cure di J. B. Lang, psicanalista allievo di Jung e successivamente allo stesso Jung, e non mancarono periodiche circostanze di depressione: segnali, tutti questi, di un disagio interiore affiancato però dal desiderio di risolverlo e le cui radici non potevano quindi trovare humus nell’intimismo tardoromantico. Lasciamo da parte il dato biografico, a interessare è la determinatezza di uno spirito indagatore il cui progetto realizza un’oggettivazione nell’attività letteraria nella prosa e nella poesia. Proprio perché «colui che cerca» (in ted. der Suchende) vive nello spirito secondo la lezione agostiniana, è comprensibile come l’ampia visione di Hesse rifuggì le sfumature concettuali tipiche della Stimmungslyrik pur se lo stile sembra calcarne le tracce se leggiamo la prima raccolta Romantische Lieder pubblicata a Dresda nel 1889 che ricevette recensione favorevole da parte di Rilke. L’edizione italiana della raccolta Gedichte del 1953/61 (Poesie, Mondadori, 1982), introdotta da Ferruccio Masini, ospita in verità una selezione ad opera di Roberto Fertonani avvalendosi di illustri traduttori germanisti e poeti fra i quali E. Pocar, G. Pintor, M. Specchio e S. Solmi. Le poesie di Hermann Hesse possono essere considerate il contrappunto alle opere narrative. Nella sintesi rappresentano un itinerario mitico, mutevole e simbolico durato tutta una vita, nel particolare incarnano un pellegrinaggio introspettivo e inquieto indirizzato ad Oriente, un oriente indiano, buddhista, e comunque nell’accezione generale di una mistica rivolta a riscoprire l’essere nel suo divenire. La poesia diventa un conoscersi in itinere, si allontana dall’origine. Non è un viaggio con la mappa già abbozzata, è un «vagare nella nebbia» (Nebbia) in solitudine e nel proprio sé, tentando la direzione anche e soprattutto di notte, un cammino che «non [sa] ancora cos’è la pace» (Felicità). La lezione viene presentita nel fondo delle parole: solo la consapevolezza che la nostra singolarità non ci appartiene e fa invece parte di una risonanza universale e cangiante ci consente di raggiungere un’altezza per sentire sulla fronte «la fredda brezza delle cime» (Per via). Non l’Io soggettivo, ma un vuoto – un centro corrispondente ogni anima – a pulsare. Arriviamo alle pagine conclusive e scorgiamo una poetica che ha realizzato un attraversamento, meditando su sogni e incertezze per pervenire a una verità essenziale fatta di sostanza e di suono, simboleggiata nello «scricchiolio del ramo spezzato». Una fusione della forma con l’essere, comprovante le ragioni di una scrittura capace di farsi veicolo di conoscenza di sé stesso e degli altri. Non a caso Hesse intese dare al protagonista del suo romanzo il nome Siddharta, ovverosia colui che ha raggiunto lo scopo.
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