Sono anni che Acque del fondale (Jaca Book, 2003) di Antonio Di Mauro è sulla mia scrivania e che si muove con me, che viaggia con me. Che si accomuna a me. Nella stanzialità e nel nomadismo. Quando parto, che sia per poco o per molto, un volume – anzi: un ‘volumetto’, parola ancora più distintiva – un volumetto di poesie lo metto sempre in valigia, e sempre lo scelgo fra quelli che già mi sono intimi. La cerchia è ristretta. Sei, sette, non di più. Lo scrissi all’autore: “Il tuo libro mi accompagnerà a lungo”. Era una convinta intenzione slanciata nel futuro. Quasi una piccola preveggenza di me, più che di quei versi amati sin dal primo impatto, e avvertiti come necessari sin da subito. Oggi posso dire che così sta avvenendo. Gli scrissi pure: “Ho trovato in ciò che hai scritto un nutrimento e un metronomo preziosi per un mese trascorso in loro assidua e insistita compagnia”. Era un mese feriale, quello, sereno, in cui la lettura non compensava ma dilatava le vicende del giorno. Contrariamente a tanti altri mesi, e anni, che gli sono susseguiti. Il volumetto, da allora, mi è sempre rimasto a fianco. Tenace. Indissolubile dalla fase della mia vita a cui si era congiunto. Sempre qui. A portata di mano. Da una scrivania all’altra. I tavoli sono cambiati, ma non la cerchia dei libri prediletti. Sono loro a determinare il mio ‘qui’. Un ‘qui’ di poche cose, ma che il tempo ha impiegato a lungo per costruire. Iniziò con Le occasioni di Montale, per continuare, in età più matura, con Una notte con Amleto di Holan. Poi Celan. Poi Di Mauro. A lui debbo l’ultimo di miei breviari. Tutti laici, ma breviari. O messali, o oracoli manuali. Sinonimi per variegare un unico concetto, a definire pagine che abbia senso leggere, ma molto di più rileggere per sceverarne la stratificazione dei sensi e dei suoni nell’inesplicabile ricerca della materia quintessenziale. Libri, insomma, in cui è platonicamente iscritto ciò che in minima parte l’autore sa di aver scritto. I suoi versi lo superano, e la squisita perizia che la mano del fabbro ha usato nel molarli non definiscono la conquista di un approdo formale, bensì la premessa di un volo che al loro facitore è dato osservare, ma non più di governare. D’altronde, già la dedica ‘A Delia’ per me significa altro, e forse di più da quello che essa non pretenda di essere, e accosta chi l’ha pensata a un poeta lionese di rara ed esoterica raffinatezza con cui, a mio avviso, Antonio Di Mauro ha molto a che spartire: il cinquecentesco Maurice Scève, autore di una sola ma impareggiabile operina che è quanto di più alto ed esclusivo sia stato prodotto dalla letteratura francese del tardo Rinascimento. Titolo dell’operina: Delie. Ossia, Delia (sottotitolo: Fiore di elettissima virtù. – da cercare nelle edizioni Einaudi). Tanto in italiano che in francese, ‘Delie’, o Delia, è anagramma della parola ‘L’idea’. Vorrà significare qualcosa o no? Ho avuto modo in altre sedi di dire e scrivere quanto io consideri importanti anche le raccolte precedenti di Di Mauro, in specie Quartiere d’inverno (poesie come Agorà rimangono estremi che non ammettono superamenti); ebbene, senza addentrarmi in fumosi funambolismi, dico solo che il margine nuovo conquistato da Acque del fondale mi sembra sia da intendersi in un’accresciuta dimensione etica, che già era percorso avviato con ieratica temerarietà. Sarà forse a causa della straordinaria dedizione consacrata all’idea di questa silloge (‘Delia’, ‘Delie’) nel corso di tanti e tanti anni, ma certo è che in frequenti punti della raccolta il lettore accede a un’astrale serenità, quasi zen, e pare di udire il pronunciarsi di immacolati Haiku orientali (« Sulla pelle il brivido dell’erba… »). Ecco, è pure questo formidabile descrittivismo, a tratti quasi trascendentale («… così nero in tutto quell’albore »), che mi ha spesso strappato moti di ammirazione profonda.
Una geometria dell’anima illumina in modo puntiforme percorsi che sembrano preesistere ai versi che li annunciano. Come qualcuno disse di Mozart: Egli ci disvela, senza bisogno di inventarli, mondi che sono da sempre. In un attimo di eternità. Parafraso. Cito. « (…) Una piccola farfalla è sospesa / ad ali aperte su una corolla / per un attimo di eternità ». Ancora sublimità da monaco buddista. È la sapienza che trova la sua inattaccabile forma nell’espressione giusta (fu detto: chi cerca la forma trova la morte, chi cerca la vita trova la forma). La poesia da questo non deriva, ma è consustanziale al processo. Ancora, con inclinazione narcisistica (d’altronde, ‘Narcissus’ è la parola con cui si conclude il componimento), cito dai versi che fanno da incipit alla Suite n° 2, a me dedicata: « Sospeso in questo lembo di cielo / offuscato come uno specchio affumicato / sotto il peso dell’ambivalenza / si spezza il pensiero nei segmenti / che congiungono le membra / dal punto alfa al punto beta… / sono colui che pensa la pienezza…», e, aggiungo, colui che pensando ammira. Vede. Assiste a. Partecipa. Pensare è un atto. L’inazione pensante, lo insegna San Bruno di Colonia, è ciò che è chiesto all’individuo per nutrire di innocenza il corso della storia umana. Acque del fondale è un libro di salmi che porta lo stigma del nuovo millennio. Continuerà ad accompagnarmi sempre: per la fortificata amicizia che mi lega al suo autore, e perché intrinsecamente anonimo. Poiché nulla che davvero meriti, ha firma. Non ha firma l’acqua, non ha firma la luce. Non ha firma una preghiera. E l’acqua fluisce, come il tempo, senza mutare di natura alle proprie molecole: dall’ultimo punto fermo che conclude il precedente paragrafo a queste parole sono trascorsi, pensate!, anni. Sì, anni! Tantissimi anni. In un semplice interlinea, è addensato un profluvio di epoche umane. E in tutti questi anni si sono succedute tante vicende mie e dell’autore, allorquando un nuovo distillato di versi è infine giunto a incrementare l’angolo della mia biblioteca dedicato agli smilzi, aurei, libri di Antonio Di Mauro. E ‘distillato’ è termine quanto mai appropriato per Società Italiana Spiriti («ragione sociale di un’azienda del Nord Italia in rapporti commerciali con una piccola distilleria siciliana », per ripetere l’impeccabile definizione contenuta nelle righe introduttive di Maurizio Cucchi), un quaderno denso di meraviglie stampato per i tipi della Casa Editrice Stampa 2009. Ha una storia intrinseca e simultaneamente estrinseca quest’operina che si guadagna il diminutivo come un merito aggiunto e non certo come un limite. Il testo, infatti, nel suo essere composto di vari brani, ciascuno d’essi al contempo autonomo e nondimeno organicamente correlato a tutti gli altri, è di vasta concezione e di succinta risoluzione. Perciò, vieppiù pregevole. Nulla di quanto scritto è subalterno al resto. Anzi: ne fomenta il ritmo, ne acutizza il suono e ne addensa gli argomenti. La naturale propensione di Di Mauro a concepire le sue raccolte come strutture coese in cui l’intero è un assieme di singole compiutezze (già l’impronta era fortemente questa in Quartiere d’inverno, e, inutile quasi ribadirlo, in Acque del fondale) insiste, con crescente maestria, a suggerirci una maniera diversa di leggere, laddove la reiterazione dei temi, a cui la poetica dell’autore ci ha nel tempo addestrati (il molto nel poco; la paritaria circolazione delle ombre tra i corpi, il trapasso generazionale…), si mescola al costante proliferare di nuove istanze narrative, spingendosi, addirittura, a far presumere spunti romanzeschi (« C’era Michele, l’eroe, tornato / dall’America …»), e sino a tratteggiare, con sonante prosodia, veri e propri personaggi, figure e paesaggi, tanto fantasmagorici quanto istantanei nella loro scarna appercezione, che si colloca a un nulla da un’epifania joyciana. Per dire: « l’operaio fuma e osserva, è giovane robusto / maestro distillatore riconosciuto… ».
E queste figure, personaggi, paesaggi, di fatto quelli tematicamente essenziali, in virtù di quella coesione strutturale di cui si diceva transitano come ombre proiettate dalla prima sezione del libro, Storie dell’età dell’oro, alle altre sezioni. Così nella successiva Frammenti di lettere a familiari e amici, che agisce da “materia” conduttrice, quindi di trasmissione, nella quale il poeta instaura con loro e con altri destinatari, “assenti” e presenti, un ideale/reale dialogo epistolare, intenso e meditato, rivelatore di “verità” e amare consapevolezze legate sia alla sfera familiare che a quella dei “destini generali” – definizione da ricondurre all’amato maestro Franco Fortini – («… non aspetto risposta dal tuo riposo. //… //… ti scrivo per farti sapere / che niente ho mai voluto sapere da te / e dunque riposa, riposa. »; « Prima che l’ora estrema disperda alla deriva / della notte i pochi frammenti del giorno / rimasti e affidi a noi la sua memoria / eventuale, queste poche righe ho pensato / di scriverti, poche parole perché rimanga / traccia di questa serata passata insieme /… »; «… / … perciò se non sei svanito / nell’inesistenza, un segnale da te lo aspetto…»). Raggiungono, dunque, nella sezione centrale, il poemetto Pietà del figlio (« un terribile affresco della condizione umana di questo periodo in bilico tra la “Mutazione” e la “Post-modernità “ di suggestiva ascendenza eliotiana…», come acutamente l’ha definito un eccellente critico/esegeta della poesia di Di Mauro, Giuseppe Rotoli, in un saggio seguito all’uscita del poemetto nel 2008, in anticipazione del libro, nell’Almanacco dello Specchio di Mondadori) alla loro esemplificazione nella figura/icona essenziale, che è quella della “vittima”, nella sua configurazione, storica, delle vittime dei lager nazisti e dei gulag sovietici, delle vite sospese nei “bracci della morte” dei penitenziari di alcune civilissime nazioni in attesa dell’esecuzione capitale, e infine in quella esemplare, metastorica, della vittima per eccellenza: il Cristo (« È il corpo della vittima, tutte le vittime / corpo pacificato ora che il sacrificio / necessario è stato consumato, lavata / ogni macchia di natura, espiata ogni colpa / sopraggiunta, … / … / … / perché il dolore trovi le sue ragioni… »). Alla tensione etico-poetica di questa sezione sembra succedere una più rasserenata visione della realtà passata e presente, colta da uno sguardo, ora “pacificato”, così penetrante da andare oltre la superficie delle apparenze e delle vicende vissute. Siamo nella penultima sezione dal titolo, appunto, Dentro, oltre lo sguardo, dove in armonia con il ritmo del trascorrere delle stagioni (e qui va ricordata la più esplicita connotazione tematico-espressiva del tempo reale attraverso i transiti stagionali che intesse la sezione Anno di grazia in Acque del fondale, dunque un motivo in più per parlare di coesione poetica, non solo strutturale, anche da un libro all’altro) un pacato dispiegarsi dei consueti paesaggi, campagna e mare, squarci di cielo solcati da uccelli migratori, eventi naturali nel loro continuo alternarsi di caldo e gelo, è ravvivato ancora dalla presenza delle amate figure rianimate nello svolgimento delle loro quotidiane attività (« C’era come una festa in allegria / di canti e sciami di grida, di mani / operose e ceste colme di grappoli…»; «… giornate intere fino a sera tarda / con gli operai a guardare la grande caldaia / e il castelletto i termomanometri / a sfera nei cilindri più bassi – / si sta bene, fa calduccio / il brusìo del grosso bruciatore è musica ritrovata. »; « Nel vento che avvolge l’isola / chiusa da tutto l’orizzonte //…//… la fragranza / di un pane spezzato, appena cotto.).
Come nella perfezione della legge matematica la figura geometrica del cerchio si chiude nel punto dove ha avuto principio la sua circolare evoluzione, così chiude il libro il riaffiorare della figura paterna, icona della umana sofferenza della “vittima” sì, ma dall’eroica volontà e capacità di “resistere”, ispiratrice dell’intero percorso poetico fatto di memorie rivelatrici, disvelamenti, di trasposizioni universali e archetipiche dell’umano senso dell’esistere. Si tratta di una limpida, sobria sequenza la quale si compone nello struggente poemetto finale, Diario clinico, che prende nome dal lessico medico ospedaliero, in cui la riflessione profonda, a tratti viscerale, del figlio accompagna gli ultimi giorni del padre in ricovero fino alla conclusione di una commovente inversione dei ruoli: «… Sei una piccola creatura inanimata / per nulla annientata, un corpo divenuto / materia del sonno ch’era d’altri / passato nella notte altra… //…// Sono io questa volta a ricondurti a casa / come facevi tu quando a sera tarda / tornavamo contenti dalla festa…/ c’erano la banda musicale i fuochi d’artificio…». E questi non sono che pochi cenni relativi alla vicenda intrinseca del libro, maldestramente farfugliati nell’attesa che la crescente confidenza coi versi di Società Italiana Spiriti si traduca in realtà mnestica come già avvenuto, per quanto mi riguarda, con altre composizioni di Di Mauro. Della storia estrinseca fanno invece parte le vicissitudini e i tormenti editoriali, che, similmente a questo gioiello poetico, altri fiori della nostra letteratura hanno dovuto sopportare. Merito grande va perciò a un intellettuale e poeta della statura di Maurizio Cucchi per aver fatto sì che Società Italiana Spiriti ci consentisse di confrontarci, a distanza di non poche età, con ulteriori e inedite modulazioni di una voce lirica di cui perseveriamo a rileggere il saputo nella certezza di rinvenirvi sempre del nuovo.