Maurizio Soldini, “la poesia è l’eterno della carne nell’istante dell’anima”.

La poesia è linguaggio nel linguaggio, l’idea di Paul Valéry balza leggendo Maurizio Soldini (nella foto di Dino Ignani) autore di Lo spolverio delle meccaniche terrestri (finalista del XXXI Premio Internazionale di Poesia Camaiore – Belluomini). Una voce originale della poesia italiana, sia per la vivacità stilistica, sia per il modo con il quale affronta la contemporaneità, conveniamo con Giuseppe Manitta (Il Convivio Editore). Trasfigurazione, musicalità, voluttà, prosperità lessicale, interiorità, attesa, domande («chiodi del telaio»), traspaiono da una lettura inesausta che restituisce come una visione di immensità di istanti, («oscillazioni tra vissuto e trama»), come uno stato eccezionale del tempo, («come giocare a mosca cieca col dubbio»).

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Era l’estate del 1976. La città era deserta e nelle piazze e nelle strade non c’era neppure un cane. Il ricordo di quella circostanza è fatto di silenzio, un silenzio abbacinante come la luce di quel solleone con la canicola coperta da un sottile velo di polvere. Una polvere asciutta, trasparente, di un colore ocra morbido, che ricopre la stasi della periferia a dare la sensazione di una dimensione metafisica à la De Chirico. Avevo diciassette anni. Era quasi il meriggio. Stavo seduto sul balcone di casa, a riprendere fiato tra una lettura e l’altra, presi un quaderno o la macchina da scrivere, ma sì, penso che presi un quaderno, e d’impeto buttai giù questi versi:

Estate

Un deserto di asfalto
coperto da esotiche macchine;
un silenzio profondo
penetra nel cuore;
la tristezza ti invade
l’anima. Nostalgia
e rimpianto per infinite cose:
la pioggia rinfrescante,
i giorni invernali,
il freddo, che ti impedisce
di oziare per le strade
e ti induce a rimaner
chiuso in casa, solo,
a pensare, a riflettere,
a sognare.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Ho cominciato a leggere i poeti alle elementari e poi anche alle medie inferiori. La scuola è importante per la formazione e assai di più lo sono i maestri e gli insegnanti. Ebbi fortuna. Mi imbattei in bravissimi insegnanti, che tra l’altro avevano a cuore anche la poesia (e non è da tutti, ieri come oggi, forse più oggi). Ricordo in modo molto vivace che alle medie la professoressa di Italiano prediligeva poeti come Saba, Ungaretti, Montale. Diciamo che la mia iniziazione alla poesia fu questa, con questi autori. Poi ci fu il ginnasio e quindi il liceo. E qui avvenne l’esplosione dell’interesse per la poesia, i poeti e in quel periodo mi interessava in particolare la critica letteraria, tanto che mi avvicinai in modo particolare allo strutturalismo, che poi abbandonai per altre vie. Al liceo ero profondamente innamorato di due poeti: Montale e Pavese. Due poeti agli antipodi, se vogliamo, con registri diversi. Fu proprio da allora che la mia scrittura è ondivaga e spesso cambia registro. Altri poeti hanno contribuito alla mia formazione. Devo dire che ho letto e continuo a leggere tutto quanto mi capita di leggere, cerco di leggere tutti i poeti. In seguito, mi ha molto affascinato la poesia di Giovanni Giudici, di Giorgio Caproni, di Vittorio Sereni e poi, tra i viventi, la poesia di Valerio Magrelli; tra gli stranieri ho trovato fruttifera la poesia di Eliot e di Celan. Ma sono tanti altri i poeti, italiani e stranieri, da cui ho avuto benefici per la mia formazione, poeti che qui ometto perché la schiera sarebbe davvero numerosa. Resta il fatto che il faro per me continua a essere, oggi a maggior ragione, Eugenio Montale.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Eugenio Montale. I motivi sono soprattutto personali, affettivi. E non potrebbe essere diversamente. Ossi di seppia è stato tra i primi libri di poesia che ho letto per intero e nel quale mi sono buttato a capofitto. Sarà stato il 1975 o giù di lì. La lettura veniva subito dopo avere metabolizzato i due volumi di Poesia italiana del Novecento di Einaudi curata da Edoardo Sanguineti (poeta che pure apprezzo e apprezzavo al punto che in alcune agende/diario del liceo ho ritrovato alcuni miei testi che imitavano la scrittura sanguinetiana). Che io non possa dimenticare Montale e Meriggiare pallido e assorto mi pare normale per il momento circostanziale, che ho appena detto, ma anche perché il poeta genovese mi attrasse da subito per il suo linguaggio e per la sua cadenza tutta esistenziale in un cantato particolare che in qualche modo è connaturata anche nella mia indole. Lasciatemi fermare qui. Potrei dire altro, ma preferisco tacere e dare la parola al poeta e ai suoi versi. Taccio perché consapevole del fatto che oggi Montale divide sia i lettori sia i critici. Ma sentite qua, come il poeta si muove nella bellezza infuocata dell’estate con quella “triste meraviglia” che è cifra del sentimento esistenzialista che mi sta a cuore:

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Ogni momento è buono. Per leggere e per scrivere. Per quanto riguarda la scrittura, in particolare, può capitare di notte, di giorno, al mattino, al pomeriggio, alla sera, può capitare che un verso mi raggiunga alla guida, nel dormiveglia; spesso ho scritto in riva al mare come pure nei centri commerciali. Ma il momento più propizio per me sono le prime ore del giorno. Mi sveglio molto presto e l’alba è forse il momento per me ideale.

Qual è la tua ‘attuale’ ‘spiegazione/definizione’ di poesia?

Quella che ho detto qualche tempo fa, che ho anche scritto da qualche parte sulla rete e che ora fa parte dell’esergo del nuovo libro che è chiuso e che spero di pubblicare nei prossimi mesi: “La poesia è l’eterno della carne nell’istante dell’anima”.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

La poesia è come la filosofia e non potrà mai essere compiuta. È un lavoro infinito. Dal punto di vista formale e da quello contenutistico. Inoltre i poeti soffrono la finitudine proprio per questo. La consapevolezza della temporalità incide molto sui poeti (come del resto su chiunque). Il lavoro di ciascun poeta rimane sempre incompiuto. Perché non è un testo, un istante, ma una vita fatta di istanti, e sia la vita sia gli istanti di un singolo poeta sono destinati a finire. Si lasciano segni (scritti) e si passa il testimone. Perché la poesia per-duri. Ma qui si entra in un discorso più complesso che è la storia degli effetti, alla quale il poeta può assistere solo brevemente.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

La poesia dovrebbe essere performativa e in quanto tale dona purezza ma anche il contrario. Mira al bello, ma conosce anche il brutto. La stessa cosa vale per il vero e il falso e il buono e il cattivo. La poesia è questo. E il registro in un poeta deve esserne specchio. Anche in questo Montale è stato lungimirante col suo magistero poetico, abilissimo a passare da registri alti, nei quali la parola poetica vola alta, a registri molto bassi. La poesia deve essere concreta, deve essere capace di sporcarsi nel fango di un realismo integrale.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Non mi sento di parlare di incarichi. Sarebbe strumentalizzare la poesia. La poesia non può esimersi dall’avere capacità performative e pertanto deve essere un tutt’uno con la persona del poeta, con la vita del poeta, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto. Se proprio vogliamo parlare di un compito ai poeti, mi sta bene quello che dice Heidegger dopo la svolta del suo pensiero. Il poeta deve essere il pastore dell’essere attraverso la cura della parola e del linguaggio.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Evito di essere monocorde. Dunque lascio per un attimo Montale e do la parola a Giovanni Giudici. Anche perché i versi che seguono rispecchiano quanto penso e quanto in parte ho cercato di dire più sopra.

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro – “Lo spolverio delle meccaniche terrestri” – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere?

A un certo momento decisi di non pubblicare più libri di poesia. Uno dei motivi principali era per il fatto che la maggior parte dei libri di poesia per lo più non sono distribuiti a dovere nei circuiti librari. Mi chiesi, infatti, se valeva la pena di affidarmi ancora a un libro stampato, con il risultato di avere neppure i venticinque lettori di manzoniana memoria, oppure affidarmi a qualche lettore in più pubblicando su Facebook quei testi che pressoché quotidianamente scrivevo e scrivo. Con la sottaciuta speranza che, se dal mio work in progress del laboratorio poetico facebookiano fosse uscito qualcosa di buono, magari qualche editore mi avrebbe contattato. E in effetti è stato proprio così. A un certo momento, nel 2018, mi contatta Giuseppe Manitta, poeta, scrittore e critico di vaglio, nonché editore della Casa Editrice Il Convivio, per offrirmi la possibilità di pubblicare un libro di poesia nella collana Ormeggi da lui stesso curata. All’inizio nicchiai, un po’ perché soddisfatto di quanto facevo attraverso il social, un po’ perché mi spaventava il lavoro di cucitura di testi, che sarei dovuto andare a pescare e a scegliere nel mare magnum delle migliaia di carte che fino allora avevo scritto. Ma alla fine accettai e così a febbraio 2019 uscì Lo spolverio delle meccaniche terrestri. Devo dire che da quel momento c’è stata un’esperienza dopo l’altra e ognuna meravigliosa, esperienze che non sto qui a dire per intero; ma lasciatemi dire almeno l’esperienza condivisa con un editore, serio sotto ogni punto di vista, nell’avere raggiunto lo scorso anno la finale nella cinquina del XXXI Premio Internazionale di Poesia Camaiore Belluomini.
Mi chiedi di concludere con un testo del libro Lo spolverio delle meccaniche terrestri. Lo faccio volentieri. Ma devo dirti che ho qualche perplessità nella scelta, perché non essendo una silloge, ma un libro di poesia, ogni testo fa la sua parte nell’intero organismo, organismo che così potrebbe essere smembrato. Come dire che il mio invito è quello di leggere dalla A alla Z il libro. E siccome prima dicevo che non credo nella poesia compiuta, scelgo la poesia che conclude il libro, anche perché questa, facendo da anticamera, getta un ponte verso il nuovo libro, che ho appena chiuso e che spero di pubblicare presto. Ma questo è altro discorso.

 

 

L’UBI CONSISTAM

perlato il bisbiglio nella notte
si leva dal cortile delle rose
dove il riflesso snuda le parole

la musica è il silenzio dell’odore
di resina che piange la corteccia
arresa all’ala della quintessenza

in mezzo a questa piazza la fontana
trasuda come un cero di calore
l’ubi consistam è il nome della rosa

 

*

 

Nota bio-bliografica
Maurizio Soldini è nato a Roma, dove vive. Lavora presso la Sapienza Università di Roma. Docente di Bioetica e clinico medico, ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a Professore Universitario di II Fascia di Bioetica. Ha collaborato e collabora con diverse Riviste e quotidiani come Avvenire e Il Messaggero. Ha pubblicato diverse monografie. Il suo libro più noto è Filosofia e medicina. Per una filosofia pratica della medicina (Armando Editore, 2006). Ha pubblicato sei libri di versi. Nel 2019 è uscito il libro di poesia Lo spolverio delle meccaniche terrestri (Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia – CT, 2019) che è stato finalista nella cinquina del XXXI Premio Internazionale di Poesia Camaiore-Belluomini.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 09.08.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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