Un paio d’anni fa partecipai a una rassegna curata da Luigi Severi, studioso di Letteratura italiana e poeta, dunque non solo assai perito di tradizione e forme storiche della poesia, ma anche parecchio addentro alle questioni della teoria e della pratica contemporanea. Nell’introdurre la mia lettura, Severi fece un’osservazione molto acuta sulla mia scrittura, distinguendo tra i libri in prosa e quelli in versi. C’è da premettere che scrivo indifferentemente poesia e narrativa (cui si aggiunge la critica) più o meno dagli stessi anni (cioè da sempre, anche se ho pubblicato poesia e romanzi solo a partire dal 2010, mentre la saggistica da qualche anno prima) e non ho mai distinto tra i diversi ambiti, cioè non mi sono mai pensata una “cosa” piuttosto che un’altra. Severi trovava invece che esistesse una dominante stilistica e dunque una maggior uniformità di temi e di linguaggio nella mia narrativa e che la poesia fosse per me uno spazio di maggiore sperimentazione, con delle “pronunce diverse non solo da un libro all’altro ma anche all’interno dello stesso libro”. Quella rassegna prevedeva un excursus attraverso tutta l’opera del poeta ospite: nel mio caso Severi partì, sorprendentemente, dal primo libro in assoluto, intitolato La famiglia felice, vincitore del Premio d’if ed edito nel 2010 dall’omonima casa editrice (che avrebbe di lì a poco cessato le pubblicazioni, dopo la morte della responsabile Nietta Caridei). Dico sorprendente, la scelta di partire da lì, perché malgrado il testo si segnalasse graficamente per la presenza delle barre oblique che tipicamente marcano i versi, quel libro proveniva da un’istanza più propriamente narrativa, sin dalla sua genesi (o rigenerazione): risorgeva dalle ceneri del mio primo romanzo, Remi, che dopo due rifiuti editoriali mi risolsi a trasformare in un libro in prosa, dal momento che trama non ne aveva, e non ne avrebbe avuta mai. S’incaricava, piuttosto, di restituire un effetto di narrazione tragica e al tempo stesso quotidiana, che in effetti sarebbe stato uno degli intenti prevalenti di tutta la mia scrittura a seguire, e in particolare di quella in versi.

Questo era il Prologo:

Avere più tempo, uscire dalla vita,/ seguire il ritmo lento della casa,/ gli scricchiolii, e solo in lontananza/ le cose di fuori Staccare ogni contatto, abbandonarsi/ al sonno come una prova di morte, svegliarsi/ molto vecchi, senza niente da fare Può succedere/ di non saperlo mai qual è il posto, e la misura All’improvviso/ un mulinello sposta una foglia, e l’uragano/ fa piazza pulita: tutto da rifare,/ ma esistono altre forme, in cui si guarda/ vivere con gli occhi della vita/ la morte, e viceversa/ Qualcuno in strada ha esploso due colpi/secchi Certe volte capita/ di pensarci, a come sarebbe/da un momento all’altro, finire/ i giorni sapendo/ più o meno quando/ Di non risalire, di non/ tornare a galla, morire/ di streptococchi, pieni d’acqua/ i polmoni, il corpo riverso/ senza più facc-   

Considero Non come vita, uscito per Aragno nel 2013, il mio primo vero libro di poesia. Il nucleo centrale del libro, la sezione intitolata Stagioni, era stato pubblicato nel Decimo dei Quaderni di Poesia contemporanea diretti da Franco Buffoni, ed era stato anche finalista del Premio Tirinnanzi. Lo ricordo perché in quell’occasione (del Premio, intendo) ebbi modo di misurare di fronte a un pubblico molto esteso la tenuta di quei testi così confessional, com’è diventato di moda dire, testi cui avevo consegnato quella che con formula altrettanto abusata si è soliti indicare come “elaborazione del lutto” (malgrado sia a mio parere più idonea la riformulazione di Barthes in “tristezza”, soprattutto a distanza di tempo). Soprattutto, attraverso i commenti della giuria e le reazioni del pubblico (un silenzio che mi augurai partecipe, e in qualche caso ne ebbi conferma a seguire), mi resi conto che quei versi non riguardavano solo me, ma toccavano corde condivise, riuscendo peraltro a non risultare eccessivamente patetici. Rifuggivo dal patetismo non solo per convinzione ideale (o ideologica, se vogliamo), ma perché quella storia di malattia e di morte che avevo messo in versi non era mia, e malgrado l’autorizzazione a parlarne, da Epicuro a Benjamin (di chi è la morte, se non di qualcun altro, della nostra non saremo qui a versificare, etc.), sentivo comunque il peso di quell’appropriazione (la vergogna di chi resta, per parafrasare l’Enrico Testa di un noto saggio). Anche in questo caso Severi ha visto giusto: la sperimentazione di alcuni di quei testi (Fili, ad esempio, o I cari altri, in cui anticipavo la poetica dell’eavesdropping, l’ascolto casuale delle conversazioni altrui, che avrebbe poi ispirato o improntato i libri a venire) valeva come “antidoto al dolore”. Di questi testi ne ricorderei forse alcuni che hanno più direttamente a che fare con la vicenda ospedaliera e con il decorso fatale (quelli delle Stagioni, appunto). Ma una specie di long-seller si è rivelato invece Precari, un testo che viene ogni tanto ripreso ancora ripreso (penso ad esempio all’intensa lettura di Francesca Gironi nell’ambito di una diretta web di qualche mese fa: qui, al minuto 20’38’’ o all’antologia Matrilineare, uscita nel 2018 per La vita Felice). In questo testo il senso della precarietà esistenziale (e del lutto) si fonde con quello storico, contingente, della mia condizione di donna adulta nel ventunesimo secolo, cui le certezze materiali delle generazioni precedenti (quindi anche di quelle dei genitori, fatalmente) sono venute a mancare, mentre la topica delle madri e dei divieti resiste e perdura in termini simbolici anche dopo l’interruzione tragica del legame biografico. Ho scoperto da Vivian Lamarque che la poesia si può editare anche una volta pubblicata, come ha fatto lei stessa e come mi consigliò quando le dissi che qualche verso, a distanza di tempo, mi provocava troppo dolore nella lettura, o, al contrario imbarazzo (chi era “il curdo di cui diresti non sia mai”, nei versi finali di Precari?). “Toglili, se non ti piacciono”, mi disse. Per adesso è questa la versione primitiva, cui aggiungo la data (2011), perché forse oggi sulla spudoratezza di dieci anni fa potrebbe fare aggio il tardivo pudore dell’adultità. Ma tant’è: Precari, dunque, fa così: 

                                                     

Mamma tu lo sai
che a un idiota qualunque
se va a leggere su un palco
(li chiamano slam poetry)
gli danno quanto meno cento euro
(lo chiamano gettone di presenza)
e se lo vince ci può campare un mese
certo senza pretese
Mamma mi ricordo quando non camminavi
papà a spingerti giù nel corridoio
overlook dice un poeta di oggi, come in shining,
e tu battevi i piedi, invece,
come un bambino al mare
Mamma tu lo sai che oggi
se va bene mi rinnovano il contratto
ma devo sorridere, carina e ben vestita
(da ricercatrice a tempo, che hai capito, da velina)
Mamma ti ricordi com’eri bella nelle foto
in cui ci somigliamo
(meno disoccupata tu,
meno gettone di presenza
una supplenza e già tre figli,
mamma mia com’eri bella),
e lo leggevi Céline? – l’atroce
farsa del durare –
ma lo sai che adesso
puoi lavorare gratis, se ti dice male,
e un fidanzato a tempo lo rimedi:
precario oggi è come postmoderno ieri,
come il nero,
si mette dappertutto che non stona
Mamma tu nelle foto eri bella,
bella e felice,
ma ora che ci guardano le telecamere,
ti prendi, magari, un’ombrellata e se ne muori
almeno sai chi è stato
Mamma gli altri miei amici hanno le mamme
che sorridono, a volte, e tutte vive
(le tue medicine impilate
più il potassio per ripristinare i liquidi),
e adesso, sì, ti porterei dove volevi andare,
in quel posto molto chic a s. Lorenzo
dove paghi dieci euro e mangi una, due prese,
alla terza ti guardano male (lo chiamano happy hour),
e ti farei leggere quello che scrivo
quando dicevi
la dobbiamo far vedere, non è normale,
o ti potrei presentare i fidanzati,
pure quel curdo di cui diresti non sia mai
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare

Per l’ultima fase della mia scrittura in versi si può parlare di poesia del quotidiano o del contemporaneo, in un’ottica vicina all’idea dell’ “anacronismo” di Agamben (filosofo assai controverso in quest’ultimo periodo, cui non possiamo però non riconoscere una serie di notevoli intuizioni critiche), ma ancor di più a quella di Alfredo Giuliani e dell’introduzione ai Novissimi, dove il contemporaneo è, alla lettera, “la lingua che la realtà parla i noi, con i suoi segni inconciliabili”. Così, ai temi del dolore e al lutto divenuto sempre più indicibile, a dispetto del (presunto) raffreddamento memoriale, si affiancano questi lacerti di vite captate, intercettate per sbaglio, per caso, al di là dell’intenzione repertoriale e spesso, anzi, con espresso fastidio per il loro carattere intrusivo. Sono le frasi che gli altri (“i cari altri”, gaddianamente antifrastico) pronunciano in disarmonia o in assoluto contrasto con i nostri umori singolari e contingenti, sventagliate di “pseudoaforismi”, come li definì Guido Mazzoni durante una presentazione degli Esercizi di vita pratica, il libro uscito nel 2017 per il meritorio editore Prufrock spa (alias Luca Rizzatello, oggi attivo soprattutto come poeta con l’ensamble Ophelia Borghesan). Non si trattava però di una mera sperimentazione formale, anche se il libro per essere così piccino è pieno di trovate minimamente tecnologiche: dall’uso dei captcha, che fu apprezzato da Magrelli, in una sua nota di lettura (qui), al QR Code che rimandava a un tappeto sonoro di rumori d’ambiente registrati col mio telefono o alla sonorizzazione di alcuni brani da parte del noiser Stefano Di Trapani. Non una esercitazione sulla forma, ma soprattutto una maniera di provare a contenere ancora una volta i rovelli personali recuperando dal flusso, dal bavardage del quotidiano, un senso di appartenenza senza forzarmi peraltro a una improbabile empatia, assai di moda soprattutto da condizioni privilegiate (come ha osservato di recente Walter Siti, da parte di quella sinistra che può consentirsi “il lusso della solidarietà”). Il mio quotidiano si faceva “somma di transiti” o “vertigine della chiacchiera” (che è “parola non parola”, ma allo stesso tempo parola democratica, che si sottrae all’imposizione categorica, alla Blanchot): esperienze sonore e volti della differenza che il puzzle della poesia convoca e (ri)suscita. Anche in questo caso mi fido degli altri e ripropongo la mia poesia più apprezzata degli Esercizi, che è dedicata a Simone Carella e alla sua vitalissima e scombinatissima presenza nelle vite dei poeti di diverse generazioni. Quando andai a trovarlo, nel suo ultimo giorno d’ospedale, ne riportai di nuovo un senso di appropriazione indebita, e quindi il mio tributo estremo non andò propriamente a lui. O solo in modo indiretto, dal “letto sbagliato”.

 

Puzzle

Quando vai a trovare qualcuno malato
di solito passi davanti a un altro
malato nella stanza solo
nel letto sbagliato

Quando esci dalla stanza lo vedi
addormentato sul fianco uguale
al tuo malato soltanto
nel letto sbagliato

Te ne ricordi l’indomani
che sei passato dritto
non hai salutato
e nemmeno guardato
quell’altro
malato
uguale
solo
nel letto
sbagliato

Un’ultima nota, in chiusura: Fortini non è tra i miei riferimenti, certamente non fu un poeta sperimentale e la sua poesia “politica anche quando parla di alberi e di nidi” come ha scritto Mengaldo, non posso dire che mi abbia mai ispirata. Poesia ed errore, però, lo trovo un titolo potentissimo: la poesia è il racconto della vita, ma soprattutto di quell’errore che è la morte, “un bug del sistema”, come dico in un verso delle Inattuali, uscite per Transeuropa nel 2016. Un progetto tutt’ora in divenire, perché il serbatoio dell’eavesdropping è inesauribile e il tema del giorno, il covid19, non si sottrae al repertorio di frasi ricorrenti e banalità (il mio ultimo testo, in fase di elaborazione, s’intitola Pandemonio). Nel nuovo libro, che credo finirò entro l’anno, ci sarà ancora spazio per il bavardage, ma soprattutto ce ne sarà per i miei temi ricorrenti, la finitudine, l’orizzonte claustrofobico dei rapporti. Con un’idea fresca di giornata: le poesie “malgrado loro”, dalle mail o dai messaggi su messenger o whatsapp che ricevo e che spesso sono in versi inconsapevoli, o fin troppo consapevoli, ma scritti da amici troppo pigri o allievi troppo timidi per farsi avanti con un libro loro. È anche questa comunità.

nota bio-bibliografica

Gilda Policastro è scrittrice e critica letteraria. Ha collaborato con riviste, quotidiani e siti culturali e attualmente cura la Bottega della poesia per il quotidiano «La Repubblica». Dal 2016 insegna Poesia presso la Scuola di scrittura “Molly Bloom”. Ha pubblicato romanzi, saggi e libri di poesia tra cui Non come vita (Aragno 2013), Inattuali (Transeuropa 2016), Esercizi di vita pratica (Prufrock spa 2017). Di prossima pubblicazione uno studio sulla poesia del Duemila.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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