Parola d’Autore
“Signorina, io ste cose ce le racconto, ma lei deve insegnarsele a memoria, a poco a poco, perché ste cose non si possono scrivere, ma solo raccontare a voce, e se lei viene la notte di Natale o per San Giovanni, non solo gli do il sapere, ma pure il potere. Veramente ste cose si dovrebbero rubare seguendo passo passo la maestra che dice le orazioni piano piano per non farle sentire, e una parola oggi, una domani, finisce che si sanno. Io le volevo insegnare a mia figlia femmina, ma lei fa la nfirmera e a ste cose non ci crede… Così ci racconto tutto a lei, tutta la mia vita e le cose che so, almeno restano prima che muoio…”. Un brano dal libro Di madre in figlia. Vita di una guaritrice di campagna. Non si tratta semplicemente di uno spaccato di tradizioni popolari in declino e da recuperare pena la loro estinzione. La discussione intorno alle diverse modalità di scrittura personale e di rappresentazione delle vite delle donne ha avuto inizio soltanto nei primi anni Ottanta del Novecento. Sollevata soprattutto da studiose della letteratura, è stata poi animata specialmente da storiche di lingua inglese, e poi francesi e tedesche. Come per altri settori dell’indagine sull’esperienza storica delle donne, l’avvio di una riflessione sulle fonti autonarrative femminili ha comportato innanzitutto una presa di distanza e una messa in discussione della tradizione teorico-metodologica e interpretativa del genere, incentrata soprattutto sulle autobiografie prodotte da uomini e, tra questi, soprattutto da statisti o comunque da figure di rilievo in diversi ambiti della vita pubblica. Le memorie prodotte dalle donne sembravano, al contrario, coinvolte in una sorta di “repressione collettiva”. Nel “grande cantiere sulla memoria femminile” aperto e formicolante di iniziative, studi, ricerche, il mio libro tenta di sottrarre una donna, una siciliana, una contadina, a quei “margini” di cui parla Natalie Zemon Davis a cui il sesso, la storia, l’appartenenza geografica e di classe l’ha relegata. Si tratta tuttavia di una donna che possiede un sapere particolare e il potere di dare la vita e la morte, in una società contadina lontana dai circuiti della medicina cosiddetta “ufficiale”. Un sapere efficace in una società di contadini in cui la malattia è la rottura di un equilibrio armonico con la natura. Ma riproporre la necessità di un rapporto di intrinseco e reciproco rispetto con gli elementi naturali, in termini di riscoperta dei semi antichi e di una sana nutrizione e di stile di vita in generale, è la molla che mi ha spinto a scrivere questo libro e consegnarlo alle donne del nostro tempo.
Di madre in figlia. Vita di una guaritrice di campagna(Le farfalle edizioni, 2014) è il racconto in prima persona che la centenaria donna Orazia, nata nel 1885 in un Comune della costa jonico-etnea al confine tra le province di Catania e di Messina, dove sarebbe morta a 101 anni, rese all’autrice in una serie di incontri culminati con l’ultimo, in occasione del suo centesimo compleanno. La notte di Natale del 1985, poi, la contadina guaritrice, consapevole di averle comunicato “il sapere”, volle conferirle anche “il potere”, ripetendole tutte le orazioni atte a recuperare la salute che qui l’autrice svela. Si tratta di un documento prezioso che consente usi diversi e tutti allettanti per lo studioso e non solo nell’ambito della storia delle tradizioni popolari: per le orazioni (preghiere e scongiuri) e le pratiche terapeutiche del repertorio della medicina popolare che la centenaria rivela; per la narrazione della sua vita come documento da studiare dal punto di vista della storia sociale e di storia delle donne; per il lavoro compiuto dalla Fiume, studiosa di autobiografia e biografia, al fine di rendere visibile e porre al centro il “percorso ai margini” di una donna nella società contadina del secolo scorso. Malgrado la restituzione dell’oralità si uniformi all’assunto del rispetto e della “fedeltà” all’intervistata, tuttavia è l’intento narrativo a guidare la mano della scrittrice, da qui una “storia di vita” che si legge come un romanzo. Il libro è dedicato dall’Autrice: “Alle mie nonne, a mia madre, a mia suocera, alle nostre figlie e a tutte le donne sapienti”per indicare la catena di trasmissione di un sapere femminile che si tramanda per via matrilineare, un sapere orale e composito che riguarda una sfera magico-sacrale e una sfera naturale che si incontrano e si fondono nel rituale. Una catena di iniziazione, che il tempo, malgrado tutto, non interrompe.
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