Ghesia bellavia

Parola d’Autore

La scrittura è per me un dialogo che si instaura tra se stessi e la realtà esterna. Il movimento dello scrivere è una danza fra un interno e un esterno, fra ciò che è manifesto alla mia percezione e ciò che tento di svelare con uno sguardo il più possibile privo d’inganni. Scrivo per decifrare le cose e la tangibilità della mia presenza. Il caleidoscopico manifestarsi del mondo nel divenire travolge l’osservatore. Questi ingarbuglia la matassa delle immagini e non coglie che un labile residuo di apparenza. Tra la cosa, l’immagine della cosa e la sua denominazione scritta c’è un doppio rimbalzo. “La parola scritta è il segno di un segno” afferma Zolla. Da ciò, il tentativo di dare struttura alla rimanenza di una visione mediante la parola scritta. Si accorda una sorta di codice: il segno sul foglio che dà forma alle immagini. Io utilizzo uno scrupoloso e metodico sguardo oggettivo mediante una scrittura che prende il sopravvento sulla narrazione, una scrittura il cui centro è la parola. L’arte visiva mi ha sempre affascinata. In qualche modo pittura e fotografia hanno influenzato il modo di scrivere. Ricordo un pomeriggio d’estate nell’atelier del pittore Gianni Meloni, avevo circa nove anni, quando la mia attenzione fu attirata da una tela a olio che rappresentava alcune figure sopra uno sfondo arancione e verde. Nient’altro. Avvertii il primo sintomo di piacere nell’osservare qualcosa che non capivo. Com’era possibile che da qualche pennellata di colore si riproducesse un’immagine tridimensionale? La maestria dell’artista aveva creato quell’effetto ottico straordinario, ma in che modo? Le sue parole: “Pennello sulla tela e occhio sulla cosa passeggiano insieme”. Riconosco questo tipo di atteggiamento nella mia scrittura che definisco, appunto, visiva. copertina libro bellavia gIl mio primo romanzo, Fermo Immagine, è una sorta di lente d’ingrandimento sulle cose. L’occhio dello scrittore diventa l’occhio del lettore: è un occhio che si ferma sul dettaglio. L’insieme dei particolari crea un’unità in cui tre personaggi, liberi dall’ingombrante ammasso psicologico ed emotivo, sono ridotti a pura funzione percettiva. Si fanno cose tra le cose. Oggetti anatomici, scomposti e sezionati, protagonisti della scena all’interno di un’azione minima e di una minima parabola temporale. Spazio e tempo hanno la connotazione del qui e ora, rappresentati mediante un ordinato concatenamento di attimi inchiodati e indicati al presente. L’impressione sensoriale dell’osservatore è subordinata a un sistema organizzato come “punctus contra punctum”. Il mondo interno dei personaggi è in continua contrapposizione dinamica con l’esterno di una città che gronda di pioggia per buona parte del libro. Lo sguardo del protagonista è vorace di forme, privo di ogni connotazione emozionale, freddo, distaccato, somigliante all’obiettivo di una macchina fotografica: scatta immagini e con esse non ha nessun rapporto se non quello di visione meccanica. Esaminando il mondo con questa sorta di apatia sembra attenuarsi per brevi tratti il peso dell’esistenza. Ho utilizzato La Nausea di Sartre come cenno e rimando a quella stessa atmosfera, libro che A. legge e lo accompagna nella sua azione: lo tiene in mano, lo porta con sé, lo tocca con tre dita, lo sfoglia sopra una panchina. Ogni movimento è scandagliato nel suo automatico susseguirsi di cause ed effetti. Pose e gesti sono come isolati dentro una sequenza di fotogrammi. Il fulcro non è l’individuo ma l’oggetto. Ciò nasce da una mia considerazione sul ruolo delle cose rispetto alla sfera umana: il rapporto con gli oggetti supera di gran lunga quello con un altro individuo. “Le cose sono nolontà coagulata”. L’uomo si identifica con esse e ciò provoca in lui una sorta di catarsi con la quale vorrebbe inconsapevolmente annullare la propria volontà nel tentativo di raggiungere quello che si potrebbe definire un nirvana occidentale.

 

 

 

 

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