“di silenzio che al respiro si fonde”

inediti

Per nascere ti devi abbandonare

Per i neonati il battito di un cuore è la colonna sonora del presente, indizio del proprio esserci, in relazione, da creatura a creatura, corpo a corpo, senza nome. Iniziale.
È un carillon, una ninna nanna, un appiglio nel nulla, una campanella nel buio, una culla.
Con il passare del tempo, il battito evade dal silenzio. Non riusciamo più a isolarne le note dal controcanto del reale che lo riecheggia. Smettiamo di stupirci del suo pulsare, rinunciamo a cercarlo a tentoni tra le costole del mondo. A meno di porci in ascolto, posando l’orecchio sul centro del petto dell’altro.
Io ho avuto la grazia di morire presto. Mi ammalai da ragazzina, feci dentro e fuori dalla vita per oltre dieci anni. Poi sono nata e ho corso senza un traguardo nelle ultime file.
Stare tra la vita e la morte cambia tutto per sempre, perché è sulla soglia che accade la luce più forte e acceca perché tu veda oltre. È nell’abisso che ammiccano sparse lucciole di senso.
Il privilegio della sofferenza è il deserto riarso che ti spiana attorno, il bianco silenzio, il feroce abbandono di bestia fiera, mentre il mondo tramonta dietro un distante orizzonte senza sangue. L’essere è lontano e umano.
Non ci sarà solitudine più amara di quella di un bambino. Non ci sarà solitudine se sarà un futuro.
Il corpo allo stadio terminale è cavo di suono, soffio oltreumano. Un vuoto che rimbomba di cuore.
Il battito si fa sempre più stanco, sempre più lieve. Solo lo scavi nella grotta buia del petto, tra stalagmiti fitte di costole, dibattuto tra speranza e paura, lische di balena, come un oblio d’acqua dalla memoria della sete. Il suo cessare sarebbe la salvezza. O risposta anteriore a ogni domanda.
I camici dicono che morirai. Lo cacciano come una cosa normale nell’abisso degli occhi di tua madre. Hanno mani di lattice che toccano senza sfiorare. Sotto il letto Dio non c’è, oppure non sente, o non ti vuole. Fuggi e corri nel giardino dell’ospedale, per far impazzire il cuore o morire.
Se torni indietro, eiettato alla vita, sei dannato alla nostalgia di sarchiare ovunque come un cieco la luce bianca iniziale, brancolando parole sempre troppo buie.
La notte torna, intermittente inonda. Altrimenti non farebbe mai giorno. Non cantarla fino all’alba.
C’è notte anche negli sguardi della gente, poco riposo. Chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere. Fino al canto dell’ultimo cuore di lucertola nel suo battito laterale. Fino all’estremo guizzo d’ala dell’airone.
Nessuno è perfettamente nell’abbandono. Siamo poco. Ognuno goccia che si spezza al suolo e disseta l’altro solo nei dintorni. Non aspettarsi ti salva da infiniti inferni e schiude lo sguardo sugli angeli infermi con le mani piagate aperte all’altro pianto.
L’enorme solitudine abitata della natura parla la lingua esatta del tuo tacere. Lei è patria senza confini né gabbie, senza secondini né catene, senza punizioni per le intemperanze dei respiri, senza le torture delle falene. Lei è casa aperta a ogni trasparenza. Grande corpo che ha il soffio del vento, il pulsare della pioggia dal cuore sfatto delle nubi, la corsa del sangue verde in venature sommerse. Ti chiama alla nascita nel suo grande ventre accogliente che ha tutte le stagioni di un’anima indecente. Il tuo amore e il suo non ha mittente.
In lei vivere è uccidere, perché la vita è ovunque, e ovunque respiro. Non mangi qualcosa che è stato vivo.
Mirino è uccidere meno. Ogni giorno di meno. Bersaglio è la gioia strana di esserci, nonostante il trionfo scontato del male, la resa degli occhi all’impossibile del cielo sul bilico del velo del sublime.
Nessuno tra i non-nati perdona la gioia. Neppure la morte che taci ti scagiona. Vorranno appiccarti di dolore. Ti seppelliranno in un silenzio di neve. Cantalo fino alla feccia. Affida al vento la traccia per gli assenti in ascolto fuori dal cerchio. Ogni alba è venire della luce alla luce.
Nulla è più prezioso di un cuore, nulla più raro. Non c’è musica più alta del suo consacrare. Ogni corpo che vive è osceno e capolavoro. Ha in sé il fango e l’alito della creazione, la furia che ti fa: non morire. Ogni corpo è stupore, anche quello del calabrone, che per la scienza non potrebbe volare. Eppure. Dovremmo trasformare l’invidia del volo in ammirazione.
Nel primo viaggio in treno la sua piccola vita mi scala e si accoccola nell’incavo tra il mento e la gola, dove pulsa il mio cuore. Il suo piccolo battito si mesce con il mio. Da secoli siamo e un tutt’uno.
Tiro un sospiro. Da quel corpicino minuscolo soffia un sospiro che mi sconquassa.
Benvenuto amore cane. Ce ne hai messo di tempo per arrivare.
Gli animali non umani ti aprono a un rapporto creaturale, alla simbiosi dei respiri, all’unisono delle pulsazioni. Nel loro fiutarti fino in fondo al cuore c’è l’empatia di un silenzio che non è mai mentale.
L’incontro con il diverso, con l’Altro animale fa luce sul simile, t’insegna a non volerlo uguale.
Per nascere ti devi abbandonare. Lasciarti partorire dallo sguardo animale.

Dal poemetto Ode a Titti

I

Cane in miniatura con la testa a mela
grandi orecchie miele aperte come ali,
pronte a captare qualunque predatore
osi minacciare la casa in lontananza.

Musetto a punta da volpe del deserto,
pancino rosa, ciuffo bianco in petto,
zampette a molla per saltare sul letto,
toccarmi le labbra e avere un bacetto.

Occhi d’ambra da ogni lingua accesa
di un fuoco capace di dire ogni cosa,
radunare in un fascio tutte le parole
appiccando l’incendio alto del bene.

Grillo matto quando c’è un biscotto,
elastico yo-yo che rimbalzi incontro
volando fino a raggiungere il fianco
per planare a terra e darti al balletto.

Cerbiatto con il biondo pennacchio
da bersagliere che nel vento svolazza
ogni volta che corri come una pazza,
ondeggia nell’aria quando sei stanca,

vibra se mi vedi, a gambero ti pieghi
ai piedi, mi sorridi a occhi socchiusi.
La coda frangiata accarezza il tartufo
guardi il tuo piumotto con sospetto

il solletico ti strappa uno starnuto
ma la tua esultanza non si smorza:
con una scrollata prendi la rincorsa
chiudi gli occhi, ti tuffi nella samba

di raddoppiata ridente veemenza.
Salti in alto, mi frughi nella borsa,
atterri e rimbalzi come una molla
sui cuscinetti morbidi di gomma.

Mio gremlin che appoggi la zampa
al dorso del piede per riconoscenza
se ho fatto con te una lunga corsa
o a ritmo di Bob Dylan una danza,

me le tendi entrambe verso la faccia
premi i cuscinetti contro la guancia
perché mi pieghi a tiro di linguetta
che nella distanza apre una breccia.

II

Passetto da leprotto quando vai al trotto
cauto da spazzino se in giro c’è del cibo
guardingo da ghepardo quando a caccia
sfrecciante da saetta se vado in bicicletta

furbo se fai un tiro buffo mentre piango:
mi rubi la matita e i dischetti levatrucco,
che ti lascio a portata di zampa e tartufo,
saltelli e sculetti strafottente com’è d’uso

quando stai per farmi uno scherzetto.
Attrice da operetta col piglio da furetto,
sulla faccia buffa da striscia di fumetto
ti riesce sempre di mettermi nel sacco

se hai deciso di passare al contrattacco:
sparpagli tutto, mi guardi di sottecchi
non ti dai per vinta finché non smetto,
salti in braccio, ti arrampichi in petto,

con la linguetta asciughi tutto il male
potresti andare avanti zelante per ore,
tartufo fremente alle prove indiziarie
delle note sul pentagramma del cuore.

Scrupoloso filologo di ogni sensazione
che ti sintonizzi sulle pagine più serie
senza tralasciare neppure un’allusione,
capace di seguire la mappa delle gioie

la geografia di sfregi d’infami e miserie
il braille trascritto nell’aria dall’umore
le rose che sbocciano sulle mie macerie
del ritmo del respiro le parole più vere.

[…]
dal libro Versi animali

Come la prima di un grande
concerto attendo ogni volta
questo momento

quando tra umani
è soltanto sconcerto,
e vorrei non essere mai
esistita oppure nel vento.

Con le dita ti sfioro la testa
le perle della spina dorsale
le orecchie come piccole ali

le foglie delle ciglia serrate
su ambra di gemme di brace
in ombra nel dormiveglia.

La tua vita mi tiene alla vita
cui mi hai data, creatura

presente, pura poesia di natura,

nata come un invito alla festa
di esistere infine dall’assoluto
abbandono di animale malnato.

Ti poso l’orecchio sul petto
il giorno implode nel suono cavo
cullante di viscere come tra valve
di conchiglia un ricordo di onde.

Resto e ascolto nel centro
del coro del cuore l’assolo:

il petto si leva, il battito scala
passo dopo
passo
dopo
passo il cielo

in agguato dall’alto
del lucernario

non sento altro che l’oltre
di silenzio che al respiro si fonde.

I

Scostare il velo greve
dell’inverno, attraversare
il parco deserto, trovarsi
al fosso che sottile separa
la città dietro la schiena
dalla campagna che resta
aperta di fronte, basta
un istante – con la nebbia
non c’è orizzonte né strada
percorsa – e siamo nell’oltre,
mi volto, i cani hanno già
fatto il salto, e sono adesso
in corsa sul campo di fronte.

Mi fermo e provo a sentire
dolore di tanto abbandono
che non ha salvato nessuno
né quella che ero; ad avere
anche una goccia soltanto
d’acqua salata nell’occhio
a fare dello sguardo ricordo.

Ma qui è d’acqua dovunque
nella brina bianca dell’alba
nel sangue verde del lago
nella condensa del fiato
nel prato zuppo di cielo
nella linfa che dentro scorre
in segreto, ha così pianto
ogni colpo e tradimento
che nell’aperto non sento
nostalgia dello sguardo dell’altro.

Dietro sfuma il pantano
umano teatrino del vano,
ogni parola che asseta
carta bruciata d’attesa.

Nel bianco nient’altro
pulsa che il fiato caldo
dei cani accanto. Il silenzio
ha il fiato dentro, deserta
bellezza e ardente di sole
che anche stavolta risorge
dalla morte che era parsa
la notte senza speranza.

Tutto è solo evidenza
presente, in trasparenza
amore sul fondo del lago
cieco, il gelo in distanza,
un abbaglio del tempo
che non è stato ogni assenza.

II

È odore delle mattine d’inverno,
di brina e fango nel parco deserto,
di condensa di fiato nel bianco,
di nube e nebbia, odore di cane
fradicio e fiero, di foglie marcite,
di prato inondato, sangue del verde
nei cerchi di un tronco abbattuto,
di pianto nel ramo caduto, odore
di ristoro dopo il sudore, di caldo
che scioglie le ciglia gelate tornando
all’interno d’inverno, velo bianco
che nel vetro intorbida lo sguardo.

Odore di piscio e medicinale
se il gatto sta male, di pianto
sul tempo passato guardando
senza pensare la piccola goccia
che cade dalla boccia nel tubo
e vi discende, odore di liquido
umore, lacrime e trasudazione,
frescura, sollievo, gola che freme.

Odore di fresca carezza se scoppia
la testa nel tardo mattino di festa.
Odore forte di mare in tempesta,
di fiume, di sale, di tuffi da fare
di brina, palude, erba e rugiada,
odore di bava, saliva e fontana,
di neve in lunghe strade scoscese.

Odore di oggi e di sempre, odore
d’ogni cosa nascente, di trasparenze
iniziali, di niente. Odore di ovunque.

Odore dell’acqua nascente.

 

**

 

Il sole albale dà alla luce lo sguardo
nel vagito di gocce il cielo si tuffa
nell’acqua è tutto pianto rifranto,
luce in perle di rimbalzo dal taglio
iniziale del mondo che allo schianto
del giorno si dà di nuovo al mondo.

Sinfonia di nuvole di calce e silenzio,
il passo in corsa sulla ghiaia che geme
sotto il salto dentro l’incanto.

La tartaruga s’incaglia nel centro
del sentiero senza sapere il da farsi,
curiosa mi fa due passi incontro,

guarda con gli occhi di corniola
e indomita dolcezza di creatura
che porta sul dorso la sua casa.

Con cura la sollevo per riportarla
sulla strada per l’acqua mentre Eva
ne riemerge di slancio, mi guarda
da una sua nascosta somiglianza,
si scrolla e riprende la corsa.

Nelle mandorle amare la scintilla
dello sguardo mi zampilla in volto
dall’incendio del suo profondo.

Riprendo a correre sentendo forte
la furia nuda di essere al mondo,

l’amore senza nome che squassa
il muscolo rosso, lo spacca
di netto e sparge nell’acqua
come polvere bianca.

 

**

 

Due bambini stanno l’uno accanto
all’altro sul sacrato di San Francesco
con lo sguardo abbassato sul selciato.

Uno tiene stretto qualcosa nel pugno
il braccio abbandonato lungo il fianco,
a un tratto lo porta di scatto sulla testa
lo getta all’indietro, prende lo slancio…

No! Fermo, fermo! Gli grida l’altro,
bloccando il braccio nel momento
prima che la pietra cali sul sacrato.

Non vedi che è morto? – Certo!
risponde la voce spezzata dal pianto.
Ma così lo uccidi ancora un poco!

L’altro abbassa il braccio di scatto,
si lascia scivolare la pietra di dosso.

Restano in silenzio fianco a fianco
a fissare in un solo sguardo spento
le ali aperte in una croce sull’asfalto,

il corpo capovolto, il petto bianco
offerto al cielo terso cui dalla ferita
profonda è svaporata la piccola vita.

 

**

 

I ranocchi sono una macchia
più chiara nell’aria della sera.

Li vedi soltanto per un istante
fino al nuovo balzo nel verde.

Titti li startufa e indietreggia
in salto anche lei di ranocchia
li ingaggia, in balzelli avanza.

Si sente il croakcroak di esultanza
dal ventre di nebbia, nella fessura
ai piedi delle mura in dissolvenza
il pigolio di una segreta creatura
alata trova riparo dalla paura.

Andiamo lentamente nel buio,
in formazione casuale, le talpe
sono già al sicuro dentro le tane.
Il silenzio irreale lo rompe soltanto
il grido del fagiano in salto dal folto.

 

**

 

Seguo Eva in corsa lungo la sponda
del lago sulle tracce dei germani reali

quando a un tratto davanti
ai miei occhi lui è tutto
d’ali candide in volo
lento verso il cielo

come quando un sogno
si porta via il suo ricordo
lasciando il senso al risveglio
che non sia nato il giorno.

Normale non averti
visto prima, Airone,
così perfettamente,
così maestosamente
al tuo posto da celarti
in te stesso dal resto del mondo.

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