Con questa sua ultima silloge Madre che resta Patrizia Baglione affronta con coraggio e grande spessore intellettuale e spirituale il tema della perdita precoce di un figlio nel grembo, dando al lettore la conferma della grandezza della Poesia. Le sue pagine dimostrano come ancora una volta la poesia sia capace di rendere universale una dimensione luttuosa in genere sottaciuta anche in letteratura e perfino in psicologia, ancorché molto dibattuta dal punto di vista sociale e politico.
Patrizia si offre qui nel suo attraversare a testa alta dolore e solitudine, usando solo la sua voce poetica accorata e visionaria, affidandosi ad un dialogo con la propria interiorità ferita e con il figlio perduto, percepito come essere vivo e senziente. E in questo porsi così istintivo e spontaneo, l’autrice riesce a lacerare il velo opaco degli sguardi distanti, ingenerando invece moti di empatia profonda in chi legge. Scorrendo i suoi testi infatti non si può non essere investiti da una forte corrente di vicinanza per una donna che cerca nella propria maternità precocemente spezzata il senso profondo dell’essere madre, del restare madre definitivamente e irrevocabilmente.
Già nei primi testi colpiscono i versi in cui l’amore materno accoglie in stupore la pronuncia del proprio nome che sembra articolato dalla lingua del bimbo nell’attimo della morte. Commuove, nella madre, quel voler farsi sguardo al posto del suo sguardo, per poter raccontare al figlio lo spettacolo del mondo. E a tratti, la madre pure dice a se stessa di voler fare i conti con la mancanza, superare la devastazione, anche quando il triste frantumarsi non cessa di passare sotto i suoi occhi, quando il profilo infantile sembra già divenuto fossile, una bocca dal sapore di minerale ,che inesorabile si scolpirà per sempre in mente e cuore.
Patrizia cerca affannosamente un’ancora per salvare la idealizzata fusione dei corpi di entrambe le creature ferite, ma sente irrimediabilmente che la sua orfanezza di madre non potrà fissarsi a nessun fondale che non sia il terreno del proprio dolore. Così la madre si lascia andare ai ricordi, a quel risuonare ancora delle capriole dell’embrione, danze sottopelle in risposta alle carezze materne sul ventre. Per poi tentare ancora una risalita dal fondo luttuoso verso una volontà di risveglio: voglio smettere di morire / un po’ alla volta;. E ancora con un tutto passa la madre cerca di rompere la continuità del pianto, camminare verso una nuova alba.
Questa altalenante discesa nell’abisso, unita alla voglia di emergere, è una costante quasi ipnotica lungo le pagine, dove si ascolta Patrizia mentre dice di aver ammutolito la propria lingua, per parlare in ogni suo gesto quotidiano la lingua del figlio, con quel suono misterioso che insiste nella sua amorosa crudeltà; dove si vede Patrizia in preda a meravigliose allucinazioni di una notturna ora blu, forse metafora di un tempo irripetibile, in dialogo con il tenue profilo di un bimbo divenuto già una costellazione.
I testi di Patrizia sembrano scolpiti, hanno un nitore che richiama una limpidezza classica, a volte si chiudono con due versi lapidari in corsivo, dal sapore di benevole profezie, come, a pag.42: Nascerò nuovamente donna/ per partorirti davvero. O, a pag.43: Sono un animale secondario/ che si lascia accarezzare , mentre il bimbo non nato risponde alle domande materne … parlami del vuoto,/ di questo passaggio verso il nulla,/dell’amore che supera le galassie e diviene un piccolo dio dispensatore di verità sul mistero dell’esistere.
Il canto potente di Patrizia, versato nel suo personalissimo spontaneo ritmo e tessuto su una trama di silenzi, riflessioni, ninne-nanne dei desideri, suoni amniotici, echi dall’oltre, si apre infine al futuro con questi luminosi versi beneauguranti:
Oltre le cupole del seno,
senza grembo, superando
l’inguine, oltre il sacro.
Salvarmi così dalla zolla,
dal nome di un fiore,
farmi fertile solo per darti
alla luce: a mani giunte,
con viso tenue,
sussurrando qualcosa.