Discesa nel dolore e rinascita. I Sonetti a Orfeo di R.M.Rilke

Rilke idea grafica di Nino Federico

l’étranger di Davide Zizza

L’universo letterario antico e moderno non può vivere senza il mito di Orfeo ed Euridice. Orfeo, nella cui etimologia incerta possiamo recuperare un significato «oscuro», profondo come la notte, è il progenitore della poesia, il «padre dei canti» definito da Pindaro; per dirla con Elémire Zolla, richiamandoci a lui nel titolo, uno sciamano incantatore. In lui si riunisce la gioia e il dolore, rappresenta i due volti della parola, il canto e il lamento e, senza dimenticare la sapienza filosofica di Giorgio Colli, in lui ritroviamo fusi il carattere apollineo e dionisiaco, dunque la dicotomia viene risolta nell’unità artistica. Di versioni tradotte e rivisitate la letteratura universale ne ha moltiplicate a bizzeffe, sottolineando la persistenza nella proiezione fascinosa e simbolica del mito. Di conseguenza il mito sopravvive nel tempo. Per questa resistenza, la sua figura è passata attraverso una vasta ermeneutica. Un’interpretazione nobile e significativa proviene dall’opera di un poeta che del simbolo orfico ha fatto uno dei motivi fondanti della sua scrittura, i Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke (Newton Compton, 1997). Riguardo la raccolta, fra le varie imprese vòlte a stabilire una suggestiva vulgata basterà ricordare l’affascinante versione di Giaime Pintor (Einaudi, 1955). L’edizione Newton ritorna utile grazie all’accurata analisi di Mario Ajazzi Mancini, la cui avventura interpretativa si inserisce nel campo psicoanalitico, richiamandosi a Freud, il quale condivise una passeggiata insieme a Rilke e a Lou Salomé. La caducità, nel senso di mancanza, perdita, lutto, o ancora il presentimento di caducità percepita da Freud nel poeta tedesco nella contemplazione di un paesaggio rappresenta la nostra stessa sensazione di perdita proiettata verso la bellezza di qualcosa o verso la persona amata (e poi perduta proprio come Euridice), provoca un doloroso turbamento e avvia una elaborazione interiore difficile da superare. Difficile, ma non irresolubile in quanto, ci ricorda Mancini, sempre tramite Freud, che il lutto «si estingue spontaneamente» e viene commutato, convertito in creatività nel caso del poeta come nel caso dello stesso Orfeo. Sempre lo scrittore e filosofo Elémire Zolla scrisse: «La contemplazione poetica fa del semplice scenario della natura un enigma, il riflesso oscuro di un archetipo e all’interrogativo che l’enigma propone, risponde con un mito».

È l’enigma di spiegarsi l’origine della vita e il senso della morte. In tale prospettiva il mito orfico rappresenta la discesa nel dolore e la rinascita. Se «il lamento può divenire un inno», i sonetti rilkiani – che fungono da monumento funebre per Wera Oukama Knoop, una diciannovenne morta per leucemia – intendono  richiamare proprio alla funzione effettiva e perenne della poesia, ovverosia di conservare la bellezza e celebrare la pienezza dei sensi rinati dalla sofferenza. In fondo, per accostarci alla visione rigogliosa di Rilke, la poesia altro non è che questo: «creare un Tempio nell’udito».

 

 

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