MEMORIE DEL LEVANTE
Mia terra d’incensi, dei celebri àgavi,
dei profumi soavi di pitòsforo
e leandro, degli immensi pleniluni
di fosforo discesi sopra il mare
e i tetti delle case, della celere
notte che rinserra i carrugi quando
dai focolari già si appresa il cero
della sera fra i grembi di scogliere.
Mia terra di ginepri che odorano
d’infanzïa, dei grumi di vitigni
cui si regge il tuo intero promontorio,
come all’onde si appigliano le rocce;
delle pinete figlie d’un ustorio
occhio di sole sull’inquieto specchio
delle spume. Mia terra che dal netto
profilo d’orizzonti il lume proietti
di petroliere sopra alla parete
delle stanze in cornici di racconti.
Liguria, mia salvezza e mio crinale,
dirupo, furia di fiotti e maestrale;
fattezza di pendici, fiumane e usci
solinghi. Sale e brina di casupole
che lusinghi di clivi impervi, e Genova
di porti, brezze e gerani, aurèole
di cupole sui coacervi di vicoli,
sui lastrici già umidi di sguardi.
Mia terra di nostalgie che azzardi
cercare come l’onda che si posa
sull’alghe e il vendicare di innumeri
vite, il tramonto che col cielo infiamma
il crocifisso sugli scogli, o il velo
d’azzurrità che svapora sul mare;
come la vespa che nella frattura
salmastra sul granito del giorno,
mentre s’eclissa ritrova il suo cibo,
quel che adesso ne resta della nostra,
così trascurata, felicità.
LAPIDI D’ACQUE
Nella notte distesa dalla livida
scorza dell’aria, dolore colato
nel vento, trafitto dal punteruolo
degli astri, vacilla una barcarola
senza più forza, ombra diluïta
nella pittura oscura del mare.
Alla deriva con le fradice assi
uomini spogli e inermi come ammassi
di coperte, sparuti oggetti lì
dalla vita sperduti anch’essi, poveri
relitti per le membra così incerte
che i vivi rassomiglia già ai morti.
Ma nella piega sanguigna del cielo
non è la zattera di Géricault,
non il suo marinaio a smuovere vesti
fra bagliori di zolfo. Intermittente
nel lampo della lancia stanno i resti,
i corpi sulle bare algide d’onde,
sagome come rughe sulla placida
guancia dei flutti. Qui nulla si può…
D’uno scafo ricolmo della gravida
pena d’abissi ormai rimangono
– le cicatrici dei lutti già viste
nelle smunte occhiaïe della morte -,
i superstiti simili a pïetre
fra le coltri compunte, né piangono
straziati i figli persi come fiori
recisi sull’acqua. Qui nella vaga
permanenza del tempo si annega
così; naufraghi della coscienza
reale è l’irrefutabile: nulla
oltre la deportazione sui mari.
Tremando salgono sulla vedetta,
senza nemmeno guardare. Nell’esodo
fu un deserto di cieli ed uno sbarco,
una freschezza d’approdi. Reclusi
per sempre dalla guerra lascïata
nei cuori sommersi, la finestrella
soltanto d’una casa, esile varco
di luce è sull’orizzonte dei fiotti:
finché su di voi una pace si posi.
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