Non c’è spazio in questo mondo per ciò che offende la sua purezza

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Pierre Bonnard, Finestra aperta sulla Senna



«Tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura. Lo stesso atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura». Questo rispondeva Giuseppe Ungaretti a un’intervista di Pier Paolo Pasolini per il film “Comizi d’amore”. Mi è stato chiesto di intervenire a questo straordinario evento, in quanto autore di versi e, forse, di Poesia; credo non ci sarebbero state parole più appropriate – se non quelle del vero poeta, Ungaretti – per introdurre il mio discorso. In un’occasione come questa, tanto ineffabile poiché paradossalmente tragica, in cui si ricorda un disastro di fronte al quale non ci sarebbero parole, occorre avere invece il coraggio di trovarne, ma che non siano il prodotto di una vuota retorica o di mielosa autocommiserazione. Ma io non sono stato chiamato qui per discutere di politica né per descrivere gli aspetti storici o tecnici di questa catastrofe: non ne ho la competenza, né ne avrei l’intenzione. Sono qui ad offrire un punto di vista che sia accoratamente umano, al cospetto di una sciagura che ci accomuna tutti, in quanto vergogna istituzionale di una repubblica ampiamente corrotta, e non mero cataclisma naturale, come molti amerebbero bollarlo. Non sono qui per fare un’invettiva né per accusare nessuno, se non l’essere umano, e quindi il genere a cui io stesso appartengo. Sarebbe davvero giunta l’ora di fare un processo all’umanità.

Tutti sapevano, tutti: chi ne avrebbe sofferto, è stato messo a tacere, mentre chi ne avrebbe guadagnato, ha preferito non ascoltare. Non si è voluta rispettare la natura e – come sempre nella nostra storia – l’uomo ha presuntuosamente cercato di assoggettarla, noncurante dei suoi segnali di pericolo. Nella nostra ingloriosa opera di civilizzazione, con l’infame scusa del “bene comune”, viene costruito qualcosa che le stesse viscere della terra rigettano: un enorme bacino d’acqua a ridosso di alcuni centri abitati, circondato da una montagna che suggerisce una sola parola, “frane”. No, non c’è spazio in questo mondo per ciò che cerca di offendere la sua purezza.

Ed ecco, nel giro di qualche minuto, che non soltanto la preziosa vita di tante persone, ma la dignità umana di un intero Paese viene rasa al suolo, e non resta davvero niente, se non la disperazione dei sopravvissuti, che inevitabilmente finiscono per sentirsi colpevoli. «Avremmo potuto e non abbiamo fatto», è questo l’amaro ritornello che risuona nelle coscienze di coloro che hanno assistito inermi alla preparazione del disastro, ed ecco che con l’incontro di oggi, abbiamo il dovere di impedire a noi stessi di rivolgerci ancora un simile rimprovero. Sarebbe tempo infatti, insieme alle lacrime, di imparare qualcosa, come esortava a fare Tina Merlin, la grande giornalista che si è sempre battuta per la verità, ed ha strenuamente denunciato il rischio che si andava correndo con quella diga. Anzitutto non possiamo più metterci nelle mani di chi vende per trenta denari la nostra salute, le nostre vite, di chi calpesta i valori di una Costituzione duramente conquistata; occorre riappropriarsi di un potere democratico che soltanto la consapevolezza, forgiata dal duro scalpello della conoscenza, può offrirci.

Nell’Ode all’Avversità, del poeta inglese Thomas Gray, il supremo Dio invia sulla terra la Virtù, sua figlia adorata, perché la dolente Avversità la istruisca. Proprio a questa egli si rivolge: «Quando il tuo Signore decise per la prima volta di mandare sulla terra la Virtù, sua figlia prediletta, diede a te la celeste nascita e ti ordinò di formare la sua mente infantile. Severa aspra Nutrice! per molti anni essa sopportò con pazienza la tua rigida dottrina, tu le insegnasti a conoscere cosa fosse il dolore e da se stessa apprese a intenerirsi al dolore degli altri». Ecco perfettamente descritto il necessario cammino che l’uomo ha il dovere di intraprendere, attraverso l’aspra selva della conoscenza, per raggiungere l’intatta virtù dello spirito, la stessa che ci consente quel sacro sentimento di empatia, che rende nostro il dolore altrui.

Ho pianto di rabbia ascoltando il canto dei bambini di Longarone, registrato su di un nastro, poi ritrovato sotto le macerie di una scuola, pensando che da quel fatidico giorno di cinquant’anni fa, delle piccole croci avrebbero sovrastato le loro spoglie di angeli mortali. A questo e ad altri infiniti motivi di dolore consento di plasmare la mia coscienza, affinché io possa acquisire degli occhi nuovi, più lucidi e più forti, in quanto segnati dalla verità: solo nei solchi scavati dalla lava, può scorrere il pianto della pietà vera. Quella necessaria a vivere, e a cambiare.

(Discorso pronunciato durante la “Giornata Nazionale in memoria delle Vittime dei disastri ambientali e industriali”, celebratasi il 9 ottobre 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario del disastro del Vajont, presso l’Archivio di Stato dell’Aquila, sezione di Sulmona)

 

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