Ho conosciuto Elisabetta Carta qualche anno fa, grazie al piccolo schermo. Nel 1973 il regista Silverio Blasi realizzò per la RAI una messa in scena della Figlia di Iorio, interpretata da Giuseppe Pambieri (Aligi), Edmonda Aldini (Mila di Codra), Elena Zareschi (Candia della Leonessa) e Roldano Lupi (Lazzaro di Roio). Ad Elisabetta Carta, al suo sorriso dorato, non poteva che essere affidato il ruolo di Ornella, sorella del protagonista. La scoperta di questa trasposizione televisiva della tragedia dannunziana mi ha permesso di conoscere un’attrice di altissimo valore e incomparabile bellezza. È stato così che mi sono deciso ad avvicinarla personalmente, scoprendo in lei uno spirito e una vitalità creativa ancora fecondi. Elisabetta ha voluto suggellare la nascita della nostra amicizia offrendomi una copia del volume Cuore di scimmia (Piombino, Associazione culturale “Il Foglio”, 2009), suo esordio letterario.
Difficilmente mi era capitato di ammirare un’opera che, grazie alla precisione narrativa e alla pregnanza dell’intreccio, riuscisse a trascinarmi con tanta leggerezza e vitalità, come un bagno nel fiume. La struttura di Cuore di scimmia è molto solida anche grazie alla poliedricità dello stile. Infatti il testo, nonostante la matrice autobiografica, “sfora” abilmente nel romanzo di formazione e nel saggio di costume. In oltre trecento pagine Elisabetta Carta accompagna il lettore, con gusto e ironia, lungo il cammino della sua crescita: dal “giardino barbuto” della casa in via Lariana alla visione folgoratrice del film Luci della ribalta, dall’ossessione per Marlon Brando alle prime recite con l’amica Assunta, dalla scoperta della sua femminilità (anche per colpa di strani corteggiatori e “tragici” fidanzati) al debutto teatrale allo Stabile di Genova. Ed è con agilità narrativa che l’autrice fa rimbalzare il lettore dal passato al presente (in situazioni apparentemente banali ma che rivelano un intimo laccio con la sua storia) fino a farlo immergere nella dimensione del sogno dominata, per forza di cose, dalle ombre dei suoi cari.
Tutto questo rendendo un suggestivo ritratto del nucleo familiare, in tutte le sue mirabili imperfezioni e nelle sue profonde, ancestrali qualità. Ma è la figura paterna, quella del pittore e poeta siciliano Sebastiano Carta (1913-1973), che spicca nel racconto come un co-protagonista da cui si attende la battuta decisiva, poiché egli è stato l’autore di quel copione di vita che, pur con le sue rielaborazioni, l’autrice si è trovata a recitare. Di Sebastiano-Nuzzo-Seb è reso un ritratto affascinante, così come della Roma del suo tempo e di quel “Salotto rosso” in cui ospitava artisti e intellettuali, lavorando indefessamente alle sue opere pittoriche (straordinarie la tecnica “del risciacquo” e quella detta “a strappo”) e sfogandosi per strada con nenie africane. Toccano il cuore anche i ricordi della Mamma (Maria «che non ha paura dei topi»), così come quelli dei Nonni. A proposito delle sue radici siciliane, è affascinante il recupero che Elisabetta fa del dialetto il quale, per citare i versi del poeta Silvio Ramat, è «una lingua perfetta / una lingua che chiama e mamma e babbo» ma allo stesso tempo un impegno non facile in quanto «lingua di famiglia / a volte ambigua» (Stanza di passo, Le Farfalle, 2020).
Come non bastasse Elisabetta mi offre la sua ultima creazione letteraria, il romanzo Stasera niente stelle (Roma, Edizioni Progetto Cultura, 2021), dedicato alle nipotine Misia e Adele, «perché scelgano sempre la loro favola». L’opera infatti si basa sull’amicizia tra due bambine, Alina e Beatrice, a cui fa da sfondo l’indagine sulla scomparsa della giovane Saira. Qui l’autrice riprende alcuni degli schemi narrativi di Cuore di scimmia: il rapporto esclusivo tra due fanciulle (Elisabetta-Assunta; Alina-Beatrice) che si sviluppa in una dimensione di gioco e di teatro, in contrasto col mondo degli adulti; il valore del sogno come visione rivelatrice (più che ricorrente nel suo primo libro e qui di particolare importanza laddove Alina presagisce il ritrovamento del corpo di Saira); canzonette e filastrocche come leitmotiv del racconto, reiterate nel corso della storia con gusto anaforico («- Hai visto mio marito? – Di che colore era vestito?…» ricorda il rito sponsale della Figlia di Iorio: «- Ohé, chi guarda il ponte? – Amore e Ciecamore. – Io passare lo voglio. – Voler non è valore…»).
Con grande capacità mimetica Elisabetta “si adatta” al linguaggio delle protagoniste, ricreando – senza cadere nella trappola del luogo comune – le inflessioni, le sottigliezze e addirittura i ritmi del lessico giovanile. I riferimenti al genere thriller sono ben calibrati e non distolgono l’attenzione dal fulcro del racconto: l’amicizia.
Elisabetta Carta si sta preparando a una nuova prova narrativa, un romanzo “poliziesco” intitolato Vertigini, in cui torna in modo preponderante quella Sicilia che ha marchiato la sua formazione umana e, direi quasi, verbale (il dialetto acquista qui un’importanza rilevante sia come lingua del racconto sia come chiave interpretativa degli aspetti mistici ed enigmatici della regione). A dimostrazione di come un grande talento scenico possa esprimersi anche quando il sipario si apre sulla pagina scritta.