Emiliano Cribari, “Errante”, sentiero spirituale, voce che vive dentro un perfetto connubio parola-immagine.

Poeta, fotografo, camminatore. Emiliano Cribari (in copertina, nella foto di Allegra Adani), dal 1999 ha iniziato a sperimentare nel contesto di svariati ambiti artistici: dalla poesia al teatro, dalla fotografia all’audiovisivo. Parallelamente, ha maturato alcune esperienze professionali anche nel campo dell’editoria e del giornalismo. Dal 2015 ha iniziato a sviluppare progetti fotografici di carattere personale, soprattutto su tematiche sociali. Nel 2019, come guida ambientale escursionistica, ha dato vita alle “camminate letterarie”, escursioni di gruppo caratterizzate da letture poetiche. Collabora con alcune riviste, per le quali scrive soprattutto su tematiche legate al cammino e allo spopolamento delle montagne appenniniche. Ha pubblicato La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (AnimaMundi, 2020), Errante (AnimaMundi/emuse) e Mar d’Appennino (Edizioni dei Cammini, 2022).
“piove la domenica tra i castagni generosi/ un cavallo mi scruta/ ha un ombrello di foglie bucato/ vago tra gli abeti raccolti in preghiera/ vigile come se avessi un segreto da mantenere/ ora a me non serve altro/ che questo silenzio/ procace”.
Questi i versi, così “minimi” così “smisurati”, scelti dal suo recente “Errante”, sentiero spirituale, voce che vive dentro un perfetto connubio parola-immagine, per introdurre la nostra intervista.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo Errante?
A innescarmi è stata l’aria, l’aria libera e selvaggia dell’Appennino. È stato il richiamo dei boschi, ai quali ho risposto con tutta la fragilità che avevo dentro. Mi sono messo in cammino chiedendo a ogni istante di scrivermi, di cancellarmi e di riscrivermi. Dopo quasi otto anni di di silenzio, La cura degli istanti (Transeuropa, 2019) mi aveva restituito parole (poche) e fiducia. Poi l’immersione boschiva e la nascita “improvvisa” di un libro inatteso, più coriaceo, linfatico, forse ancora più minimale: La vita minima (AnimaMundi, 2020). Dopodiché Errante (quasi due anni più tardi): una furia gentile, istintiva, il ricongiungimento con un senso che credevo smarrito.

La poesia può giovare a comprendere (specie in questo tempo odierno, buio e refrattario all’ascolto) che si “guarisce soltanto/ ritornando animale”?
Non vedo altre soluzioni. Ma non lo dico perché scrivo. Lo direi anche se fossi un muratore, o un giardiniere. In un articolo nato un po’ di tempo fa per “Civiltà Appennino” (contenuto nel libro Mar d’Appennino, appena uscito per Edizioni dei Cammini) scrivo: C’è chi pensa che ormai sia impossibile far crescere un bambino, una bambina, in questi luoghi (ndr, le aree interne dell’Appennino); che farlo significhi condannarli all’emarginazione, alla solitudine, all’infelicità. Può essere che chi ha questi pensieri abbia visto poco o male, non si sia mai avvicinato, abbia soltanto sentito dire. Si sia fatto un’idea senza immergersi, senza approfondire. Fino a poco tempo fa, alla domanda “cosa vorresti fare da grande?” i ragazzi rispondevano “il dentista”, “l’avvocato”, “il geometra”, “l’architetto”, “l’ingegnere”. Chi è che oggi pensa davvero che nel duemilaquaranta, fra poco meno di vent’anni, potranno veramente servire tutti questi web designer, tutti questi programmatori? Magari fra vent’anni avrà più lavoro un pastore, un allevatore di galline livornesi, un poeta-boscaiolo che saprà potare i castagni, seccare i marroni, batterli, macinarli, caricarseli in spalla e portarli nei paesi barattandoli con i sorrisi, con i pezzi di pane, con il formaggio di capra e le patate rosse. Lo diceva Battiato che “il giorno della fine non ti servirà l’inglese”. Si potrebbe scrivere un libro soltanto in risposta a questa domanda.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Prima di innomadirmi (parola che utilizzo proprio in Errante), credevo che il parto gemellare avesse riguardato “unicamente” vita e pensiero, quotidianità e scrittura. Due aspetti che non ho mai voluto (o saputo) distinguere. La poesia è un’attitudine, un credo, come la fede di un parroco, l’abnegazione sapiente di un chirurgo. Dalla poesia non si torna indietro. La mia precarietà mentale è sempre stata anche, indissolubilmente, precarietà professionale. Ciò che mi ha offerto Errante è stato invece il salto in più riguardante proprio il linguaggio: perché Errante è stato scritto (anche fisicamente) camminando, cioè incamerando le parole passo passo tramite un piccolo registratore vocale, unitamente alla voce del vento, dell’acqua, al mio affanno, tutto. Avevo capito che quelle parole, per essere vere, non avrebbero dovuto mai fermarsi, non avrebbero dovuto mai agghindarsi neanche di virgole e di punti ma sudare sputare pregare inciampare infangarsi con me. La lingua di Errante è il ritratto spudorato di un uomo in dispersione.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Forse la poesia è l’invalicabile. Ora che tutto è così politicamente serrato, barricato, obbligato, insacchettato, con che cosa si salta se non con i muscoli aerei e leggeri della poesia? Errante si chiude con una parola importante: rivoluzione. Quando il mondo è armato fino ai denti, e disconosce ogni cosa inutile (cioè che non produce un utile) nonché immateriale, e ironizza sul sacro fino a disfarsene, allora la postura poetica, la poesia, la gentilezza, l’ascolto, restano le ultime schegge d’umanità possibili. Camminare, camminare nei boschi, recuperare un’idea non redditizia del tempo: oltre alla carità, alla cura dell’altro, non c’è forse altro che si possa fare (pregare?) per non essere complici del massacro.

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
D’istinto avrei risposto quasi tutto poi mi sono fermato. Se passo un piatto a un cameriere, o se evito di far notare a una persona che ha sbagliato a fare qualcosa per non metterla in imbarazzo, sono una persona gentile, sono un essere umano, sono un portatore di bellezza, di poesia, ma non sono un poeta. Né sono un poeta se ho buoni (o cattivi) pensieri ma li esprimo in maniera sgangherata. La maggior parte dei giovani sotto i vent’anni fatica a mettere insieme quattro colonne di foglio protocollo. Dalle pagine Facebook di molti tra quelli che oggi sono definiti poeti piovono strafalcioni di ogni tipo. La poesia è un manufatto: un vaso, una scarpa, una cesta di paglia. Ce ne sono di buone, di raffinate, che resistono al tempo, e ce ne sono di svelte e di modaiole, a basso costo. Sono sempre vasi, scarpe, ceste di paglia. La differenza sta “soltanto” nella forma, che poi altro non è che capacità di riscrivere, di leggere e di rileggersi. Mentre un poeta reputa subito una cosa finita (e pubblicabile) l’altro la affina allo sfinimento, nutrendosi di ogni dubbio e smottamento possibile. La forma è anche logorio, sanità, bellezza.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Impossibile non pensare alle Lettere a un giovane poeta, quando Rilke, interrogato da un giovane poeta riguardo alla qualità dei propri scritti, lo invita a guardarsi bene dentro e a domandarsi se morirebbe se gli fosse negato di scrivere; se la risposta è affermativa, dice Rilke, scrivi, altrimenti lascia perdere. Voglio dire: non bisogna per forza scrivere, dipingere, scolpire. Si può stare benissimo anche in silenzio. Oppure rivolgersi ad altro. Il bisogno, l’urgenza, la necessità, in ambito artistico sono scintille essenziali senza le quali nessun animo schietto e incendiabile (parlo soprattutto dei lettori) può realmente prendere fuoco.

Pensando ai tuoi versi “non so più cosa sperare/ amo più un paese vuoto/ che un paese riempito male”, ti chiedo: qual è stato, anche da lettore, l’insegnamento (o, se preferisci, il “dono”) sostanziale ricevuto (ad oggi) dalla poesia?
Da ragazzo la poesia mi ha stanato. Senza la poesia sarei forse marcito in un silenzio sordo e distruttivo. La poesia mi ha vestito, concedendomi l’autorizzazione a confessarmi, a rivelare pubblicamente la mia totale inapplicabilità a questo mondo. Al contempo, è stato grazie alla poesia (nonché alla fotografia) che ha preso fuoco dentro me la voglia di indagare, di inabissarmi (quasi sempre a piedi) in qualunque voragine nascosta del paesaggio con la gioia di svelarne la natura più segreta, la necessità (spesso repressa) di esistere ancora.

Riporteresti (spiegandoci le ragioni) una poesia (di altri autori) nella quale sei solito trovare “rifugio”?
È una domanda alla quale darei forse ogni giorno una risposta diversa. Oggi mi ronza (e mi danza) nella testa una poesia che non è una poesia ma una sorta di inno, di preghiera, di rivelazione, scritta da Giovanni Lindo Ferretti a proposito del suo Appennino: Il mio Appennino è un luogo di struggente bellezza in cui una esigua minoranza di umanità non riducibile a dimora urbana si nutre di piccoli eroismi quotidiani fronteggiando il fallimento, la scomparsa, l’oblio. Il mio Appennino frana, irrimediabilmente, frana il terreno a ricomporre un paesaggio mutevole, si sgretola il corpo antico della civiltà della cristianità d’occidente svezzata tra monasteri ed eremi, borghi e castelli in cui si è tramandato, ruminandolo, ciò che restava dell’antecedente ed è stato imbastito quel futuro che è il nostro passato. Un orizzonte redento dall’Incarnazione: passione morte resurrezione ascensione, “nell’attesa della Tua venuta”. Un tempo incombente, poi imminente, poi diluito, poi si è perso il conto. Cittadino è diventato sinonimo di uomo libero, depositario di diritti inalienabili, proteso a una realizzazione disincarnata e massificata – produttore consumatore utente – in uno spazio tecnologico in cui la connessione riduce il tempo a una perenne consecuzione di immediatezza, sradicato da ogni contesto storico e geografico. A sé. Risalire l’Appennino in un giorno feriale concede la percezione del collasso di una civiltà, abitarlo permette di affinare lo sguardo sul “non invano” di ciò che ci ha preceduto. Non vorrei essere che qui, in questa incerta ora. Un contesto economicamente fallimentare, politicamente insignificante, socialmente perdente, eppure qui riluce la vita nella sua essenzialità, nel suo mistero. In queste parole c’è parte del senso di Errante, e più in generale del lavoro (più spirituale che poetico, più antropologico che fotografico) che sto portando avanti da anni. Anch’io non vorrei essere che lì dove mi porta l’odore – sempre più labile e alienato – della legna bruciata, “quando la notte svela il buio/ e fa la conta di chi non c’è”.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una due poesie: una poesia dal libro Errante e una dal libro La vita minima – (riportale gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che le ha viste nascere.
Questa è la poesia con cui termina La vita minima. Ma potrei anche dire che questa è la poesia con cui inizia Errante. È una poesia che in origine non c’era, nel libro. Valentina (AnimaMundi) mi chiamò per il “visto si stampi” proprio il giorno in cui avevo iniziato un lungo viaggio a piedi. «Quanto tempo ho per dirti se ci sono correzioni da fare?». Silenzio. «Un giorno». «Un giorno? Ma io sono in mezzo ai monti senza linea telefonica!». Così mi sedetti sotto un albero e cominciai a disfare tutto il libro. Piombai letteralmente nel panico. Improvvisamente, come sempre, non mi piaceva più niente. Falciai di netto almeno una decina di poesie. Valentina, che un po’ conosce le mie paranoie, mi telefonò rassicurandomi: «Va bene. Da che dovevamo fare un libro di centoventi pagine siamo arrivati a malapena a ottanta, ma va bene. Però fammi un piacere: aggiungi almeno una pagina. Serve a me a livello grafico». Pochi giorni prima avevo scritto una poesia dedicata al “mio” Appennino, sempre per citare Ferretti. Versi che avrebbero dovuto dare il via a un lavoro poetico più selvaggio, inforestato, errante. Metto questa, pensai. A Valentina piacque e anche a chi lesse (e legge) il libro. Tra l’altro, è forse l’unica poesia de La vita minima adatta a essere letta in pubblico.

Sull’Appennino c’è il mare:
lo porta il vento tra gli aghi di pino
quando inizia la primavera.
L’Appennino è un rudere
divorato dai rovi.
Un crinale spellato,
una vetta sbucciata.
Una ruga di rocce,
un corrimano di ginestre odorose.
Un cielo di nuvole irruenti
che colano sui boschi.
L’Appennino è un dubbio,
una risposta che volge al no.
Una cosa storta e barcollante.
Ha monti che si chiamano Tiravento
e Zuccherodante.
E croci senza pellegrini.
L’Appennino è una bottega
chiusa per delusione.

Non c’è poesia facente parte di Errante che non abbia alle spalle un ricordo, un luogo, un cammino. È forse questo l’aspetto più vivo del libro: la sua fisicità; il suo essere anche odore suono fotografia. Ogni poesia di Errante ha un sentiero a cui appartiene, quasi fosse il toponimo di un istante interiore divenuto transumanza. Diversamente da La vita minima, Errante è un libro che si presta assai a essere letto in pubblico, camminando, all’aria aperta. È un libro (anche) orale e rituale. Sono affezionato a diverse poesie, ma dovendone scegliere una scelgo questa: perché l’ho scritta in un momento in cui lo smarrimento interiore – divenuto presto anche un ritrovamento di me – coincise con lo smarrimento fisico: mi ero imbucato in una valle sconosciuta, stava calando il sole e non sapevo più come venirne fuori. Invece che agitarmi ascoltai quella “disperazione calma,/ senza sgomento” di stampo caproniano che agita le foglie prima dei temporali. Ritrovai presto la luce e anche il sentiero.

oggi voglio chiudermi
stringermi tutto nelle spalle
appartenermi
voglio raccogliere le forze
desistere
esitare
sussurrare m’arrendo
tra le scapole stanche di vigilare
stanche di scansare
oggi voglio impigrirmi
deambulare a braccia conserte
abbandonarmi alla lenta sedazione del bosco
farmi sedurre dal muschio
dal liscio misericordioso della roccia
voglio alleviare il compito al coraggio
chiedere aiuto a una campanula
a una viola
voglio sciogliermi in un pianto
gioioso di torrente
ridurmi ulteriormente
fare spazio
defluire
oggi voglio assentarmi
placarmi
chiedere al vento di placcarmi
oggi voglio orgogliosamente destituirmi
da tutto ciò che non mi appartiene
voglio brancolare senza alcuna certezza
e sottomettermi al tremore
di lasciarmi osservare
eccomi
sono qui che non procedo
che osservo
sono in disarmante tregua
pecco di fragilità e candore
sono la casa di me
bambino
di prima elementare

 

in copertina ph di Allegra Adani

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