Asteroidi D’inchiostro
“libri come corpi celesti persi nello spazio dell’indifferenza”
Questo libro scritto da Ennio Speranza è innanzitutto un atto d’amore per un cantautore che nel suo breve percorso artistico, ha rivoluzionato senza pretese il folk ancorandolo su sonorità intimistiche e surreali e non per questo rinunciando a una poeticità istintiva, panteistica, densa d’inquietudine e asciutta nella sua malinconia semantica. Indagare su Nick Drake? Denudarlo? Mi chiedo se sia necessario o forse lo è se teniamo conto che lui con il suo essere voce e armonia del suo stare al mondo in ogni canzone ha ficcato lo sguardo dentro la sua anima serenamente oscura, universalmente radicata nella solitudine, e che fosse solitudine di spazi, di relazioni, di sonorità che diventano pian piano sussurri di pochi accordi, cambia poco. Non ricordo esattamente il primo incontro con la musica di Drake, ma di quel periodo tengo bene a mente la catarsi oppiacea e una profonda solitudine che nella sua disperante capacità di auto annullamento diventava nell’abbraccio con la solitudine lirica di Drake moltitudine, un tenue pensiero di libertà. In questo libro come spiega Ennio Speranza, è importante parlare e scriverne della figura di Drake ma è altrettanto importante metterlo da parte difronte a questa sua terza e ultima opera, perché Pink Moon è la traccia incessante di un artista stanco della realtà, che sceglie i sentieri del dettato poetico per trasfigurare la stanchezza esistenziale in un viaggio ai limiti del surreale. Quindi Pink Moon non è soltanto un curioso disco Folk di ricerca ma sarebbe giusto definirlo un’opera d’arte. Speranza ne è assolutamente convinto, e lo descrive così come un “disco urgente diretto necessario e poi denso, stringato, enigmatico, ma soprattutto è un disco composto per frammenti”. Ed è proprio in quella frammentarietà che dopo anni ho capito il curioso approccio avuto con esso mentre la mia vita era quasi strattonata da emozioni altalenanti, soffocanti e liberatori allo stesso tempo. Fu quasi spontaneo per me avvicinarmi a quelle melodie oscure ma in fin dei conti irradiate da un senso d’estasi, da una pigra consolazione. Per analizzare i testi di Drake bisogna soffermarsi su quella dicotomia campagna-città dove la città è principalmente fonte di occasioni, di conoscenze, invece la campagna è il rifugio ideale, lo sbocco poetico con il quale tessere un simbolismo esistenziale, eppure lo specchio ideale di quel ragazzo perdutamente innamorato di una certa utopia sinistra, inquieta, e siglata da quelle sonorità semplici che uniti alla sua voce pacata, ne faranno il canto turbato di una dubbia collocazione generazionale, quasi una confessione sacerdotale, un requiem rispetto a tutti i generi musicali di quegli anni. Una musica ideale per scacciare i fantasmi di quel ragazzo colto, riflessivo, sognatore, di una naturale eleganza. Tuttavia mentre provo a cogliere ancora una volta il mistero di questo disco, che ascolto in sottofondo, guardando oltre la finestra dove mi consola la vista di un bosco di collina con i tetti baciati da un azzurro primaverile, non posso che essere d’accordo con Ennio Speranza quando definisce Pink Moon “come una sinfonia romantica che inizia con il buio e si conclude con la luce” e poi ancora scrive “ è come un poema sinfonico tardo ottocentesco o primo novecentesco: inizia con la morte e finisce con la trasfigurazione”. Dunque mi chiedo se sarebbe opportuno, mentre mi dibatto con le ombre del passato, fare un salto a ritroso nella mia vita mentre Drake evoca con la sua voce enigmatica il ragazzo perduto dentro un’atmosfera densa d’infanzia, dolente come certi amori non corrisposti, tragica come una promessa mancata. Perché facendo ciò diventa forte il legame, univoco lo stato di disadattamento per tutto ciò che non genera bellezza, e quindi diventa quasi impossibile non avvertire quell’imminente catastrofe specie se si ignora la sensibilità celata in ogni autentica opera d’arte. Sensibilità è questo il punto: un delicato estraniamento che porta quella leggera inquietudine a farsi profumo, visione, panacea per tutti i sensi.
Eppure Pink Moon non è soltanto marea di sonorità e parole che cercano isole dove pensare salvezza è un disco che puoi sfiorare, guardare. La sua copertina è un curioso quadro surrealista dell’illustratore Micheal Trevithick, ed ecco: un cielo all’imbrunire che da un colore scuro passa al celeste poi al verde e infine al giallo. Dietro montagne e al centro una luna sferica che dal rosa passa all’arancio, metà coperta da ombre. Uno spicchio su di essa rivela che la luna è fatta di formaggio svizzero, in fondo invece notiamo dei buchi che suggeriscono i fori di una palla da bowling, al centro parte una strana fune che rassomiglia alla miccia di una bomba. E poi una tazzina da tè, la faccia triste e spenta di un clown modellata come un molare, un francobollo con all’interno una bandiera americana e il razzo Saturn V della missione Apollo 11. Insomma una tavola onirica alla Dalì che nonostante possa sembrare complessa rispetto all’essenzialità stilistica del disco invece incarna la caotica quiete e il simbolismo di Drake. Mentre ancora Ennio Speranza ribadisce che la forza di Pink Moon sta nella sua debolezza e che le canzoni sono per la maggior parte non-canzoni eppure canzoni in disfacimento, talvolta appunti e forse in realtà il frutto maturo di un modo diverso di pensare la canzone, pensare è quello che mi concedo nel silenzio, interrotto all’improvviso dall’inquilino accanto che dibatte con la compagna, dal chiosco della gelateria in basso affollato da ragazzini addolciti dal morso, perché c’è vita intorno a me ed è vita che non vuole cessare proprio come nel sussurro di Drake, lui che è stato figlio del suo tempo eppure umanamente e completamente fuori da quel tempo, sembra assurdo ma è possibile come scrive Speranza “stare nel proprio tempo ed evadere dal proprio tempo, scrivere canzoni che non siano associabili a nessun tempo pur da quel tempo venendo”. Raggiungere quiete partendo da un luogo d’inquietudine, ringraziando questo artista, seppur maledicendolo per quella notte del 24 novembre del 1974, quando ha scelto, o forse è stato soltanto una casuale overdose e non un suicidio, di lasciarci, non provoca domande, non irrigidisce l’angoscia, perché Drake è qui mentre sfoglio questo bel libro e con i timpani faccio l’amore attraverso il suo canto, quasi un’osmosi di parole e suono. Lui è qui dove il buio fuori inizia la sua terapia e quasi per magia appare una luna piena…è solo coincidenza mi dico oppure è quella magia che solo le vere opere d’arte diffondono sulle miserie dei tempi, e forse dovrei riguardare lì fuori e attenderla davvero questa luna piena farsi rosa trasfigurando in visione paradisiaca la mia realtà: io che sono qui in un bilocale mentre la paura polverizza gli esseri umani soffiandoli come il clown ritratto in copertina e forse sparso nell’ignoto oppure nella speranza di ritornare a ridere, perché è questo che vorremmo oggi dalla malinconia radicata nella bellezza, ridere.
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