anteprima
da Antonio Canova “Viaggio in Italia”, Prospero Editore, in “Ariel”, collana di prose alternative, diretta da Dario Borso.
12 febbraio 1780 Napoli
Stamattina prendemmo un calesse e ci facemmo portare a Portici, dove abbiamo atteso la dama Barbarigo e il signor Ambasciatore per raggiungere insieme il Vesuvio. Andammo dunque a cavallo sin dove potevamo, poi iniziammo ad ascendere a piedi. La dama fece poca strada perché pensava impossibile il proseguire, dunque insieme all’Ambasciatore e al suo cavaliere monsieur Sud si diresse a un romitaggio poco distante. Il signor Ferrari, il signor Giuseppe Colle segretario dell’Ambasciatore, Selva ed io salimmo alla sommità; io veramente non mi sarei mai sognato che la strada fosse così disastrosa e ripida, costretti a camminare in parte sopra i frammenti di lava che è come sabbia e ci seppellisce sin quasi al ginocchio. Finita questa polvere, si trova la lava così impietrita e incrostata, che sembra impossibile potervisi stare sopra.
Cominciammo poco distante da Portici a trovare la lava colata negli anni più quella dell’eruzione ultima dello scorso agosto; mai avrei mai creduto di vedere una cosa simile come questi gran fiumi impietriti di lava dappertutto. Giunti alla sommità vicino alla bocca d’onde sortiva il gran fumo che s’insinuava nella gola e ci dava molto incomodo, fummo qualche poco favoriti dal vento che sbandò il fumo e ci fece vedere giù nella bocca, la quale è veramente orribile. Vi si vedeva dentro che era rossa e gialla che pareva dipinta dagli zolfi e altre materie minerali contenute; sotto i piedi scottava, noi abbiamo scavato, e i pezzi che scavavamo di sotto erano tutti zolfi e selci di colore verdicello e giallo; ce ne siamo portati ciascuno con noi benché fossero scottanti, senza troppo guardar di trovare pezzi rari non potendoli quasi vedere.
A causa del fumo iniziammo a scendere con maggiore incomodo sin dove c’era la lava impietrita; dove poi cominciò ad essere minuta, mi misi a correre ed arrivai molto avanti gli altri al luogo dov’erano i cavalli in attesa; lì aspettai gli altri, e insieme tornammo a Portici dove bevemmo il caffè attendendo la dama che tornasse dal romitorio. Venuta che fu, prendemmo in due un calesse e giungemmo a Napoli alle 24. Andammo a cena o per dir meglio a desinare dall’Ambasciatore, e mangiammo i maccheroni tirati sulla grattacasa, che furono eccellenti; poi stemmo là in conversazione con la dama e gli altri sino alle 4.
Mi sono scordato di metter sopra che, smontati di cavallo, per raggiungere la sommità del monte impiegammo due ore camminando continuatamente. La bocca del Vesuvio sarà mezzo miglio di circonferenza, però all’ingiù si va restringendo; veramente accenna una bocca dell’Inferno, e non si può formarsene idea senza averla vista, come anche della lava sortita e della scabrosità per salire questo monte.
13 febbraio 1780 Napoli
Stamattina comperai un paio di scarpe e le pagai sei carlini, non tanto buone. Passammo per la bottega del Veneziano a riverire il signor abate Corazza, che ci procurò mezzo di andare dal marchese Giovanni Berio, dal quale avemmo la sorte che ci mostrò molti quadri di pittori napoletani non noti, ma di molto merito. Ne vidi anche uno di Polidoro da Caravaggio e diversi del Cavalier Calabrese, in particolare una Pietà di bellezza non ordinaria. Ci fece vedere un quadro che stava copiando suo figlio quattordicenne, davvero meraviglioso. Vedemmo molti soffitti dipinti e altri ne stavano dipingendo dei pittori napoletani, ma il migliore fu quello di Giuseppe Bonito, che mi piacque molto più di Franceschiello De Mura.
Ritirammo le nostre lettere dall’Ambasciatore, poi a pranzo; quando fui alla fine dell’arrosto, non so se perché troppo grasso, mi venne una specie di svanimento sentendomi lo stomaco rovescio; mi stesi un poco sopra il letto e mi passò. Andammo in cerca con il signor Morghen di un calesse per farci condurre a Pesto, ma non accordammo; egli allora ci fece il piacere di accompagnarci a Palazzo Reale dal marchese Domenico Venuti, il quale è direttore della Fabbrica delle porcellane e dipinge anche a pastello; questo signore ci mostrò molte vedute delle aderenze di Napoli incise da francesi.
14 febbraio 1780 Salerno
Stamattina ci siamo alzati alle 13, poi andammo ad accordare un calesse per sedici carlini sino a Salerno. Partimmo dunque da Napoli alle 14 e facemmo sosta a Pompei, sito che si sta scavando presentemente. Entrammo, e subito vedemmo il quartiere dei soldati con un grande cortile; il portico attorno è sostenuto da colonne che paiono di ordine dorico, ma sono scannellate sino alla metà. In mezzo a un cortile scorgemmo il tempietto fuori del quale stanno tre are per i sacrifici; vicino a queste, in forma di piccolo tempio un luogo dove andavano i sacerdoti a purificarsi. Vedemmo il teatro, ma il parterre non era ancora scavato; entrammo anche in una casa privata, e volemmo anche portarci a vedere tutte le altre escavazioni, ma ci dissero che erano troppo distanti, per cui si risolvette di vederle al ritorno.
Proseguendo il nostro viaggio, arrivammo a Salerno alle 21, fermandoci prima di entrare in città all’osteria da Bruno, il quale subito ci accordò con un altro calessiere di portarci domani a Pesto per quaranta carlini. Andammo con un salernitano a visitare il Duomo, vescovado di San Matteo. Davanti c’è un cortile in mezzo al quale vi sta una vasca in granito di quaranta piedi e otto once di circonferenza. Il detto cortile è formato di ventotto colonne in granito cipollino o marmo, i capitelli sono di ordine corinzio e uno composito di diverso lavoro; in terra poi vi stanno cinque colonne di granito. Vari sarcofagi e un’altra vasca di minore grandezza di quella centrale. Dentro il Duomo ci sono due buone tavole di altare, e la più bella è una Visita dei tre Re Magi al Signore[1] inventata da Andrea Sabatini con mirabile semplicità: la Beata Vergine sta seduta con in grembo il Bambino, che ha nelle mani un presente portatogli dai re, e San Giuseppe glielo sostiene affinché non gli cada di mano mentre due dei re stanno in piedi in atto di ammirazione. Parte del selciato è bello. Scendemmo sotto il coro dove c’è una chiesetta con al centro un altare sopra cui ci sono due statue bronzee a sedere del Naccherino rappresentanti San Matteo, tutte due gettate da uno stesso modello e poste in opera schiena contro schiena.
Passammo alla chiesa di San Benedetto dei monaci Olivetani; vi stanno dei sarcofaghi, il sepolcro di Pietro Bailardo negromante e pure il Crocefisso in pittura che tiene il capo chinato dalla croce avendolo distaccato dalla pittura per far segno al suddetto negromante di avergli perdonato i suoi peccati[2]. Camminammo un poco per la città, che non è molto graziosa ma contiene circa centomila persone; tornando all’osteria, visitammo la chiesa della Nunziata, lavorata di molti stucchi e con due tavole di altare buone, in particolare quella di Sant’Antonio, mentre l’altra la credo copia.
Andammo alla bottega del caffè, poi all’osteria e si cenò, ma mangiai poco sentendomi indisposto; il letto era veramente buono.
15 febbraio 1780 Pesto
Ci alzammo alle 8 e, montati in calesse, si fece sedici miglia sempre per una buona strada. Imboccammo poi la strada per Pesto, così cattiva che bisognò in un luogo staccare i cavalli per scavar fuori il calesse dal fango. Giungemmo a Pesto alle 16 e subito ci mettemmo ad osservare quei tre templi i quali, in particolare uno, sono quasi intatti tranne il coperto. Essi sono di un ordine che manifesta gli inizi dell’architettura: le colonne non hanno base, vicino al capitello sono sottili e scannellate sino a metà, il capitello tiene per abaco una grande pietra quadra, poi sotto v’è un ovolo e poi uno sguglio che forma capitello, e le colonne stanno piantate sopra tre scalini.
Dopo dunque aver bene guardato questi tre templi di cui, se non vi fosse stato un vento terribile che quasi ci portava per aria, avrei fatto ben volentieri un schizzo, vagammo per quelle antichità vedendo grande numero di colonne rotte, capitelli di ordine corinzio ma non di bella forma, pezzi di fregi con figure che si riconoscevano cioè Apollo, Castore ed altre, pure queste di non buona scultura, tutte le mura della città quantunque già cadute, una porta intera, pezzi di strada, certi ponti che pare esser passato un piccolo fiume intorno alle mura. Mi piacque molto la posizione di quella città vicina al mare in pianura, con i monti verso levante tiene vicini e dall’altra parte molto lontani. Tutti tre i templi guardano da una parte cioè tra mezzogiorno e ponente.
Alle 18 rimontammo in calesse (dopo essere stati in casa di un Monsignore), e sempre per campagne dove non c’è che qualche casuccia, alle 22 imboccammo la strada buona e alle 24 eravamo a Salerno. All’osteria trovammo la cena pronta, poi andammo al caffè e tornammo a casa per coricarci; si pagò l’oste, che volle venti carlini.
Da Napoli a Salerno sono ventisette miglia, da Salerno a Pesto trenta miglia circa.
16 febbraio 1780 Pompei
Stamattina, preso il caffè montammo in calesse alle 14 e tornammo a Pompei per vedere il quartiere, il tempio e il teatro. Passando agli altri scavi, vedemmo molte case private, ma bisogna sapere che le stanze sono tutte piccole e che tutte le dette case hanno il loro cortile nel mezzo con la sua vasca scavata in terra; i pavimenti sono tutti belli e in gran parte a mosaico, le stanze, sale, botteghe, cucine sono tutte dipinte e generalmente con il fondo colorato; si vede che facevano il fuoco con il carbone non essendovi camini; molte stanze avevano poca luce e le scale strette, e molte al posto dei gradini facevano un pendio come strada; la migliore da noi vista tra quelle scoperte in città, comoda e grande, fu una che si dice fosse di un chirurgo, essendosi trovati in una stanza molti strumenti per la chirurgia[3]. Si vede l’antica via selciata di lava, la porta Ercolanese con due porticine per parte affinché potessero passare i pedoni, come anche per la via c’è una fondamenta ai lati affinché si possa camminare senza timore dei carri. Vedemmo delle stufe fatte in questa maniera: il pavimento è sopra pietre cotte, e queste sono sostenute da molti cannoncini in terracotta di un piede d’altezza, che a metà hanno qualche buco. I muri e le volte sono foderati di pietre cotte distanti quattro dita, e toccano i muri solo con certi piedini, che qualcuno appoggiandosi non sfondi le pietre; la stabilitura sopra queste pietre è grossa, come anche quella delle volte. Stando dunque in un’altra stanza infilavano il fuoco in una bocca sotto il pavimento della sopradetta stufa, e così il calore s’insinuava e passava per il pavimento e per tutti i muri sin sopra le volte, ch’erano fatte nel medesimo modo.
Tosto usciti dalla città s’incontra il basamento di una piramide rotonda e molti suoi pezzi in terra; ci sono certi mezzi circoli dove mettevano i morti con lapidi davanti, e dietro un grande sepolcro attorniato di colonne; c’è un luogo dove bruciavano i cadaveri per porre poi le ceneri nelle urne poste nei semicerchi suddetti; sopra questa pietra dove bruciavano, vi stanno delle maschere piangenti di terracotta dietro le quali mettevano un lume acceso, ed essendo trasparenti, gli occhi e la bocca dimostravano di piangere.
Poco distante da questo luogo c’è un bellissimo casino di campagna[4] dotato di un grande cortile a colonnato con vasca al centro. Questo casino ha una grande loggia e molte stanze, alcune delle quali dovevano servire da sale, benché piccole, e una stufa è conservata presso un bagno. C’è una grandissima cantina che corre per tutto il portico del cortile, dove trovarono diverse persone morte e in particolare una donna con pendenti agli orecchi, monili e anelli; ci sono, ancora come furono posti anticamente, tantissimi vasi dove tenevano il vino, l’olio e altre cose.
Tornando nella via antica, trovammo un altro sepolcro. Poi alla Torre della Nunziata attendemmo il calesse, montammo e raggiugemmo Napoli alle 23. Si andò per trovare pranzo ma bisognò aspettare; sostammo alla bottega del Veneziano, alle 2 si desinò e si finì al bigliardo sino alle 4.
[1] Ora al Museo Nazionale di Capodimonte.
[2] Ora al Museo diocesano di Napoli.
[3] Ora al Museo Archeologico di Napoli.
[4] Villa di Diomede.