#1Libroin5W.: Lina Maria Ugolini, “Come grani di melagrana”,  Edizioni Saecula.

Chi?

Come grani di melagrana è un romanzo intenso evocato – nello stile di una scrittura musicale e mentale – da Caramuele, un vecchio rimasto vivo e solo in un piccolo borgo d’Abruzzo, tra quaranta case deserte, gusci posti a grani di melagrana (come Bufalino dice di Comiso) sulla roccia degli Appennini, tra quaranta cose immote, attrezzi, oggetti, appartenuti un tempo a una comunità rurale dimenticata dal mondo e dalla Storia. Nella meravigliosa copertina disegnata per Saecula da Emanuela Orciari, appare poi la pastorella Chiaravita, creatura dal cuore di poesia e figura chiave del romanzo. Altro non svelo al lettore. 

Cosa?

I temi principali del libro indagano sulle ragioni insondabili dell’amore e della vita, in rapporto alla morte e all’oscurità del male, quello perpetrato dai soldati tedeschi durante il secondo conflitto mondiale in ritirata lungo la linea Gustav. Il 21 novembre del ‘43 i nazisti uccisero a Pietransieri (una frazione del comune di Roccaraso) centoventotto tra donne, vecchi e bambini. Il romanzo ricorda questa strage dimenticata, trasforma ad un tratto lo stile di un narrare che oscilla tra mito e fiaba, in tragedia.

illustrazione di Emanuela Orciari

Quando?  

L’idea della scrittura è nata alcuni anni fa quando andavo a insegnare al Conservatorio di Rodi sul Gargano.

Dove?

Prendevo una corriera da Roma che passava per l’Abruzzo. Lungo la strada mi colpì l’immagine di un paesino e di un cimitero, separato dalle case appena da un filare di cipressi. Sono rimasta folgorata da quel senso di solitudine, dalla sintesi del vivere e del morire. Impugnata la penna ho trasformato il vero vestendolo d’immaginario, consegnato a quel paese la sua gente operosa e silenziosa, uomini contadini e artigiani, pastori e poi soldati. Antiche madri chiamate Vilma, Beppa, Gentilina, donne che seppero tessere, cucire, raccontare fiabe, fare nascere bambini, combattere come Irma la ribelle, da partigiana sulla Maiella. All’inizio del libro il lettore per orientarsi troverà tutti personaggi del romanzo presentati come in un copione teatrale.

Perché?  

Scrivere per me significa conoscere l’uomo e l’umano. Sono entrata in un paese dimenticato per capire come scorre la vita e il tempo in spazi circoscritti e isolati dalla modernità. Seguo in questo la lezione di Manzoni e di Verga, le ragioni dei sentimenti di coloro che passano sulla terra senza lasciare traccia.

scelti per voi

«Quaranta case facevano il paese, poggiate sulla roccia antica degli Appennini. Stanno ancora lì come gusci secchi senza più lumache e vi rimarranno fino a quando vorranno quei monti, a segnare il destino di un’attesa mai colmata. Quaranta giorni, quaranta anni. Servirono alla gente che le abitò nel corso delle stagioni. Per ogni corpo che visse ci fu una bara e una tomba scavata tra le margherite del Camposanto, posto alla fine di un sentiero in pendio che iniziava dove le quaranta case finivano, strette l’una all’altra nella conca di un abbraccio, ciascuna con il proprio vicolo sottile, appena il rivolo di un torrente in declivio portato a unirsi al corso di un unico fiume costeggiato dall’ombra e dalla pace dei cipressi. Ne conobbero tanti di morti quelle case nei secoli, ordinati da guerre, ammazzatine per beghe familiari da lavare nel sangue, rivolte mosse dal possesso feudale, piccole e grandi offese alle quali si sommarono calamità naturali e terremoti, frequenti tra quei monti. Fatti che pochi conobbero, scivolati accanto ai grandi nomi scritti sui libri, parte di quella moltitudine che passò inosservata sulla terra senza lasciarvi traccia, gente nata e collocata in luoghi dimenticati dal mondo accanto all’essenziale per vivere, il conto di poche case, di poche cose, di pochi animali. Pecore, capre, conigli, galline, compagnia per occhi gravati dal peso annoso delle palpebre, uniti a una terra dalla quale non si separarono allora né si divisero mai.» pp.16-17

«La mia pezza… Caramuele la tolse dalla bocca, la mostrò alla gallina ferma a covare accanto alla propria spalla. Finché c’è questa pezza so che non sono morto. Quella piegò il collo rispondendo coccodè. Non se n’era mai separato. L’aveva tenuta nella tasca dei calzoni quando erano corti e poi lunghi, uscendola di nascosto se la tristezza gli scavava il cuore, quando prendeva il sentiero dei cipressi, fermandosi davanti a una croce coperta di muschio. Vi spiccava l’intaglio a sgorbia di un viso colto di profilo, un naso dalla punta rotonda, in testa un cappello di paglia come quello usato a valle dai contadini a giugno per la mietitura. Davanti a quella croce, la pezza di lino tornava nella sua mano e poi in bocca, stretta tra i denti, per essere succhiata inghiottendo una lacrima.» p. 19

«Quante guerre il mondo ha conosciuto, quanti morti caduti sulla terra senza scopo, ammesso che la morte abbia una ragione per recidere a un tratto la vita pescando a caso nei giorni, alleata delle contingenze umane dettate dal potere, necessaria quando il corpo invecchia, si asciuga, accumula anni su anni. La macchina s’inceppa e non funziona più come prima. Succede alle creature e a tutte le cose a lungo adoperate che a un tratto si gettano via. La vita si accompagna alle cose, ad oggetti utili insieme ad altri che suggeriscono diletto nel toccarli, nel riporli con ordine o disordine in un cassetto. Cose da prendere con dedizione, rabbia, fatica. Oggetti, indumenti, attrezzi, strumenti a cui le mani danno movimento, contenitori in attesa di contenuto, di prese che giovano ad azioni quotidiane ed essenziali come quelle richieste da una vita rurale, la prima che l’uomo si adattò a seguire dal dì che comparve sulla terra scoprendo l’istinto del cacciare e dell’uccidere. Ciò che respira è fatto per non durare in eterno. Questa è la prima legge della natura modellata sul ciclo delle stagioni. Ciò che ingiallisce in autunno secca in inverno, ritorna a fiorire in primavera e a dare frutto in estate. Così la vita chiude il proprio cerchio di cadute e rinascite. Dopo il solco della fossa, la semenza della bara. Ci sarà sempre erba di vento a ricoprire la terra dei morti, spighe di grano o di gramigna fertili sotto lo stesso sole. Tutto trova il modo di spuntare, d’erigersi sotto il cielo. È solo una questione di tempo, un tempo accumulato da millenni, un tempo che vide nascere i mari e le montagne, pelle della terra. Ne conserva storia la roccia: impronte di foglie, ossa, conchiglie poiché le montagne furono del mare e del fuoco, furono del vento che le erose e le modellò insieme alla pioggia, alla grandine, alla neve, al ghiaccio, al corso dell’acqua che vi imprese le proprie fenditure, scavò forre in quella pelle dura e possente, eppure scalfibile da gocce complici dell’eterno. Gli uomini dei paesi degli Appennini guardavano le montagne ed esse guardavano loro muoversi come formiche affaccendate a portare sul groppone il proprio fardello. Basta poco a pestarne qualcuna tra le tante. Il resto continua ad andare, perché quel cammino sa come ricomporsi. Il fine è portare un seme, riporlo nel proprio formicaio.» pp. 137-138

Lina Maria Ugolini

Lina Maria Ugolini (Catania, 1963). Figlia e nipote d’arte, unisce all’attività di scrittrice, poetessa e contafiabe, quella di musicologa. Forgiatrice di linguaggi e forme, ha pubblicato numerosi libri tra romanzi, manuali, poesia e saggi di carattere creativo per vari editori tra cui rueBallu (premio Andersen 2016), Gremese, Ensemble, Splēn, Villaggio Maori, Sikè, Giazira, Ensemble, Kalòs, Saecula. Lavora con importanti compositori italiani per i quali scrive libretti di teatro musicale e testi poetici per arie e songs. Come autrice di favole per musica e corti teatrali vince numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Ha collaborato con il Teatro Massimo Bellini, la Camerata Polifonica Siciliana, come drammaturgo con il Piccolo Teatro di Catania e della Città, Teatro Brancati e Compagnia GoDoT. Per Tele Padre Pio ha condotto il programma di divulgazione musicale “Silenzio… parla la musica”. Per Radio RosBrera di Milano il format “Questione di ritmi.” Per Web Radio Teatro della Città, Radio Zammù, Università di Catania, il programma “A rima baciata” (tra poesie filastrocche canzoni ed arie d’opera. Come e perché certe parole si baciano.) Attualmente è docente titolare di Analisi delle forme poetiche, Storia del teatro musicale e Drammaturgia musicale presso il Conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria. Ha insegnato al Conservatorio U. Giordano di Foggia e all’Istituto Musicale V. Bellini di Catania. È socia del CENDIC, Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea. Ha curato vari progetti di scrittura, creativi, didattici e di divulgazione musicale. Ha al suo attivo numerosi testi andati in scena.

Oggi a Catania

 

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