«La felicità è una traccia coperta/ interrata – nascosta./ La apprezziamo più tardi nel tempo quando sbuca dal suolo./ Impensato – il germoglio – compare». Versi di Eugenio Patanè, scelti per introdurre la lettura di “Verso l’orizzonte (in)visibile”, volume pubblicato da “Algra editore”, scortato dalla prefazione di Anna Vasta, dalla postfazione di Irene Giuffrida e da un “Contributo poetico” di Giuseppe Ligresti. Versi, leggiamo nella brillante nota introduttiva, che “scandiscono tempi e ritmi di una geografia interiore con cadenza musicale, senza soluzione di continuità. (…) Una visione poetica che dalla natura enigmatica dei sogni, dalla loro fantasmatica essenza trae la sostanza che la nutre, traducendosi nella tensione lirica di uno stile e di un linguaggio moderni, e a un tempo, di classica tradizione”. Versi, aggiungiamo, che, «nella infinita estensione del Tempo», rinvengono il visibile nell’invisibile. Versi come lente che non mente e vive nel «mistero che rassicura e splende». Eugenio Patanè, come un «derviscio», volteggia «attorno all’amore». L’amore – «l’etra preziosa del più redento ‘amare’» – è il cardine di un sentimento fulgido, che vibra dentro lampi nostalgici, che supera l’inverno «fino alla ‘luce’ del nuovo mattino», che rinasce nonostante gli inciampi sulla «durezza» del vivere. L’amore «birifrangente», come quello per la madre (RosaMaria Pace) – «gioia inesauribile» -, la cui presenza si palesa con la vitalità di liriche manoscritte e disegni senza tempo amorevolmente custoditi, confluiti a compimento del volume. L’amore invincibile maestro, «Ho imparato a splendere nel pianto. Ho imparato che conta solo il bene».
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Verso l’orizzonte (in)visibile”?
Sono state due. Principalmente l’aldilà, inteso come dimensione misteriosa e affascinante, cui siamo destinati tutti; o perlomeno coloro i quali che considerano il corpo soltanto un vestito e pensano che l’anima possa vivere oltre la terra. E poi, il desiderio di inserire alcune poesie e disegni di mia madre, RosaMaria, cui è dedicata la raccolta, insieme a “gli altri invisibili”.
“Sempre sacre”, le parole bastano alla poesia?
Se crescono come una pianta, dentro di noi, sì!
La poesia può condurci “verso un eremo epurato”?
Immagino che la poesia possa condurci dappertutto. La poesia può davvero tutto, anche solo per un po’. Esattamente come i sogni.
E, ancora i tuoi versi, “Cado sulla durezza della vita”, per chiederti ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia? Qual è stato l’insegnamento “cardine”?
Sono stato attirato verso luoghi sconosciuti, altre vite, modi di pensare; sono stato condotto a istanti di grande pace e al silenzio, come spazio dell’ascolto, personale e del mondo. L’insegnamento “cardine” della poesia, per me, è la libertà.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile? O, richiamando il titolo del tuo libro, dell’invisibile?
Mi piace pensarlo e credere che sia così, unitamente alla musica.
La poesia può guarire la pensosa solitudine del poeta? Può guarire l’umanità dalla dilagante “sordità”?
Più che guarirla, la accompagna. Dona a essa conforto, comprensione, vicendevolezza. Assume la peculiarità “accudente” delle sincere relazioni affettive o di alcuni amori irripetibili. La “pensosa solitudine” è connaturata in ogni poeta, quanto l’esigenza (per tutti) di essere amati. Probabilmente la poesia non riuscirà a guarire l’umanità dalla dilagante “sordità”, ma sono sicuro che operi costantemente per scongiurare il pericolo del male.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 25.02.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).