Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, lavora nel settore delle telecomunicazioni. Ha pubblicato “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015), “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016), “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante la plaquette d’arte “Grandi poeti” (2012) e per i Fiori di Torchio il libro d’artista “Onora il padre” (Seregn de la memoria, 2018). Sue opere sono incluse in “Lezioni di Poesia” (Arcipelago Itaca, 2015) di Tomaso Kemeny, in “iPoet Lunario in versi” (Lietocolle, 2018) e in numerose antologie e riviste. Partecipa a letture poetiche, dibattiti culturali e blog di poesia. È membro di giuria nei Premi “Il Giardino di Babuk” e “Rodolfo Valentino”. Ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi, fra questi gli sono stati assegnati il premio San Domenichino e Dante d’Oro dell’Università Bocconi per la poesia inedita, il premio Gozzano e il Premio Letterario Internazionale Indipendente per la poesia edita, è stato finalista ai premi Montano, Bologna in Lettere e Caput Gauri.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Ho composto i miei primi versi durante l’adolescenza; ricordo sia alcuni versi che erano evidenti imitazioni degli autori che in quegli anni preferivo e che avevo conosciuto nello studio della letteratura italiana al liceo (in particolare Ungaretti e Quasimodo) sia versi di tipo parodistico, come una sorta di poemetto epico (la mia “La Secchia smarrita” adattata ai tempi) che aveva come personaggi alcune persone da me conosciute e frequentate in quegli anni. Di questi versi non è rimasto nulla; li ho distrutti anni fa, senza alcun rammarico e soprattutto senza alcuna perdita per l’autore o i possibili (o sventurati?) lettori. Ne capivo infatti la totale irrilevanza, tranne il gioco che li aveva fatti nascere. Hanno lasciato però un certo gusto per la parola ricercata associato a una certa verve ironica (se non sarcastica), gusto che ancora ritrovo nei versi più recenti.
È poi seguito un lungo periodo in cui la letteratura ha rappresentato un costante interesse come lettura, studio, approfondimento ma senza alcuna ambizione a scrivere. In quegli anni mi sono dedicato soprattutto alla formazione tecnica e scientifica che era finalizzata alla mia preparazione professionale, oltre che ad altri miei interessi primari come la filosofia e la storia della scienza, la fisica atomica, la storia contemporanea. Solo negli ultimi anni ho ripreso a scrivere, il che ha portato poi al bisogno di una condivisione con gli altri e alle prime pubblicazioni, le prime autoprodotte e successivamente con case editrici riconosciute sul mercato.
Credo tuttavia che la prima poesia che si scrive sia in sostanza quella che si deve ancora scrivere. Infatti ogni nuova poesia è una sfida aperta, nasce da un’esigenza sempre nuova e diversa, che sicuramente può attingere a quanto scritto in precedenza, alle nostre esperienze passate, a tutto quanto si è letto, ma ogni atto creativo è in sé unico e irripetibile: è sempre un nuovo inizio.
Quale poeta e quali i suoi versi che non dovremmo mai dimenticare? Per quali ragioni?
Una delle poesie a cui sono più affezionato è “I versi” di Vittorio Sereni, che credo possa bene riassumere qual è la ragione ultima per cui si scrive poesia, cioè la necessità di esplicitare una mancanza, risolvere un proprio conflitto tutto interiore in relazione alla percezione del nostro io rispetto al mondo, sapendo che la poesia non è mai risolutiva di questo conflitto, non può assolvere ad alcuna funzione consolatoria, ma è semplicemente constatare che la ferita resta sempre aperta, impossibile rimarginarla. Ecco i versi con cui la poesia si chiude che bene esplicitano questo concetto:
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
(Da “Gli strumenti umani”, 1965)
Si tratta della visione della poesia come di un percorso continuo di ricerca inesauribile. La poesia, detto altrimenti, non è uno strumento per individuare certezze, ma un continuo porre domande, interrogativi necessari per i quali non è data una risposta circoscritta, ma sta nella domanda stessa la sua ragione, lasciandoci alla consapevolezza, per dirla sempre con Sereni, che la verità che si vorrebbe trovare si riduce a “nulla nessuno in nessun luogo mai” per citare un suo splendido e memorabile endecasillabo.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (altrui) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Si tratta dei versi che reputo fra i migliori mai scritti, i più autentici, e il loro autore è Ezra Pound nel Canto LXXXI dei Cantos, che è ascrivibile alla sua esperienza della prigionia pisana, alla sua condizione di uomo umiliato, privato della sua libertà e della sua dignità, che sa trovare l’unico conforto possibile nella poesia, frammenti di versi come relitti a cui aggrapparsi, dove tutto intorno è naufragio, deserto. Cito le parti che ritengo salienti, per quanto l’intero canto sia meritevole di essere riportato
What thou lovest well remains,
the rest is dross
What thou lov’st well shall not be reft from thee
What thou lov’st well is thy true heritage
[…]
But to have done instead of not doing
this is not vanity
To have, with decency, knocked
That a Blunt should open
To have gathered from the air a live tradition
or from a fine old eye the unconquered flame
This is not vanity.
Here error is all in the not done,
all in the diffidence that faltered…
traduzione
Quello che veramente ami rimane,
il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
[…]
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
questa non è vanità. Avere, con discrezione, bussato
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questa non è vanità.
Qui l’errore è in ciò che non si è fatto,
nella diffidenza che fece esitare.
Credo siano versi che possono ricondurre ogni uomo al suo senso di responsabilità, alla consapevolezza che tutto quanto si è scelto di fare nella vita, anche i più clamorosi errori, è quanto più ci rappresenta, è quanto di più vero possediamo, se è stato dettato dalla parte più profonda di noi, dallo spirito, come potrebbero dire gli idealisti. Questa è la nostra eredità, ciò che di noi non si cancella.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Non credo sia possibile dare una definizione di poesia. Molti ne hanno dato una definizione dal proprio punto di vista soggettivo, in accordo alla propria visione del mondo, in funzione della propria personale concezione della poesia (la cosiddetta poetica). Credo che la poesia sia un’arte che si riesce ad esprimersi meglio non tanto con definizioni astratte, quanto con la sua pratica concreta, nel fare poesia. Definirla rischia di essere un puro esercizio tassonomico o di circoscrivere il campo in cui la poesia ha effettivo valore.
Tutte le più recenti acquisizioni critiche tendono sempre più a non limitare l’attribuzione della categoria di poesia unicamente a composizioni che usano come componente costitutiva il verso, a favore di una concezione della poesia più ampia che tende a comprendere nuove espressioni come ad esempio la poesia performativa (che combina elementi significativi tratti dal mimo, dal teatro, dalla comunicazione corporea), la poesia visiva o la video-poesia (con ibridazioni possibili con il mondo dell’ipertesto e della multimedialità), la prosa con fini poetici fino al limite della prosa in prosa (ossia la riconoscibilità della forza poetica del testo pur esprimendosi con la tipicità propria della prosa), i tentativi di generazione di poesia ricorrendo all’intelligenza artificiale, avatar, composizione automatica. Assistiamo a una nuova concezione della poesia che ha come elemento unificante cercare una visione il più possibile inclusiva delle molteplici forme possibili.
Tuttavia resto dell’idea, anche questa di Pound, che a distinguere la poesia da altre espressioni letterarie sia soprattutto l’intensità della dizione, ossia l’uso della parola (con la combinazione fra significato e significante, forma e contenuto) in un’accezione altamente densa e selettiva, con la finalità di trasmettere un insieme di stimoli sul lettore che incidano profondamente tanto sulla sua sfera razionale quanto sul suo subconscio per offrirgli una visione alternativa del mondo, indurlo a riflettere per ricercare una diversa prospettiva.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Di una poesia spesso è individuabile l’atto di nascita, ossia la causa che ne ha originato l’ispirazione, l’atto creativo; in altri casi le poesie originano quasi per una ragione inconosciuta che spinge il poeta comunque a scrivere. Vi sono poi poesie che riescono ad assumere una forma soddisfacente (se non compiuta) in un arco temporale breve, altre che richiedono un’elaborazione più lunga e sofferta, altre ancora che non approdano mai a una forma adeguata per il loro autore.
Credo che per la poesia valga quanto Edison sosteneva a proposito del genio applicato in ambito scientifico: 10% inspiration 90% perspiration, ossia la riuscita di una poesia dipende al 10% dall’ispirazione e al 90% dalla traspirazione (dal sudore, dall’applicazione dell’autore nell’impiego degli strumenti tecnico-stilistici che ne presiedono alla forma o, come direbbero altri, dall’artigianato poetico). Una poesia assume una forma compiuta quando l’equilibrio fra ispirazione e traspirazione è stato adeguatamente raggiunto: l’autore può a questo punto ritenerla ultimata e ipotizzare una sua condivisione con il lettore, ad esempio con la pubblicazione.
Tuttavia la poesia è un’espressione artistica che, forse più di altre, è perennemente in fieri. Non di rado accade di riprendere versi scritti a distanza di anni e intuirne nuove possibilità che ci inducono a una revisione, a una riscrittura più o meno profonda (da minime variazioni terminologiche fino a soppressioni o aggiunte più marcate e decise). In questo senso la poesia non è mai compiuta: è il lavoro di una vita intera che continua a operare su un nucleo minimo di leve ispiratrici, intuizioni preziose che spesso vengono rielaborate per poterle esprimere più efficacemente ed autenticamente. La poesia cambia come noi cambiamo. In questo senso si potrebbe dire che si scrive un’unica poesia per tutta una vita.
La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?
La società contemporanea ci impone il modello della visibilità a tutti i costi, dell’apparire come condizione per l’essere, l’esibizione ostentata delle proprie (spesso presunte) competenze, capacità, eccellenze. Tutto questo è quanto di più lontano esista dalla poesia che chiede invece la riflessione interiore, il ritiro nel silenzio, il farsi da parte per lasciare in primo piano la parola, la sua forza nuda. Solo sotto queste condizioni, adeguandosi a questa condotta, può nascere una poesia credibile, destinata a durare, perché aliena dalla moda del momento, dalle contingenze.
Il poeta dovrebbe quindi sapersi mettere in ascolto degli altri e del mondo per poterne trarre quegli elementi da cui può nascere la sua parola poetica; è la sua poesia, non la sua voce o peggio ancora il suo nome, che devono ambire ad essere ascoltati. Questo presuppone come requisito assoluto la capacità da parte dell’autore di mettersi a lato, lasciare che sia la poesia a occuparne lo spazio preminente. Inutile dire che tutto il contesto culturale contemporaneo agisce in direzione totalmente contraria rispetto a questo assunto, anzi ne è la visibile negazione. Proprio per questo fare poesia significa porsi fuori dall’ordine costituito, quindi è di per sé un atto intrinsecamente rivoluzionario. E sa esserlo parlando sottovoce, con discrezione.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
In una mia poesia (“Di un incomodo peluche” in “Zero al quoto”) dico che la poesia è
declinazione esatta
prontuario dell’inutile. Inutile
e irrinunciabile.
Questo a voler proprio indicare come sia fuorviante attribuire un ruolo ben individuato alla poesia: attribuirle un compito sembra quasi voler avvalorare la consuetudine contemporanea secondo la quale solo chi ha un incarico assegnato è degno di essere considerato, perché “produce” qualcosa. Quanto non sa tangibilmente generare un profitto, non merita, in base a tale assunto, una propria dignità.
La poesia, per la sua stessa natura costitutiva, deve rifuggire quindi da questo condizionamento. La poesia esiste fin dalle origini proprio perché ha ragione d’essere, prima ancora di darsi un compito: è uno dei bisogni fondamentali ed insopprimibili per l’uomo. È connaturata alla nascita stessa del linguaggio o, ancora prima, del suono articolato: è la sua forma compiuta.
Ciò detto, eliminato questo equivoco e restringendo il campo, credo che non esista poesia che non si possa considerare politica, ossia al servizio della polis: la poesia si propone sempre il cambiamento, vuole agire concretamente sulla comunità degli uomini per smascherarne le ipocrisie e indicare il percorso per un’equa riorganizzazione delle gerarchie valoriali. Non esiste altra ragione valida per fare poesia.
La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
La poesia non può se non essere testimone ed espressione del proprio tempo. Ne deriva che il suo linguaggio deve essere adeguato alla contemporaneità per essere credibile e rappresentarla coerentemente. Questo però non comporta necessariamente un appiattimento del linguaggio alle modalità e alle convenzioni correnti, anzi la poesia deve restituire dignità e autenticità alla parola, emendandola dal logoramento della consuetudine d’uso, ripristinandone la valenza etimologica, fonetica, semantica e simbolica. Un’eccessiva semplificazione del linguaggio per allargare la platea potenziale di fruizione della poesia non è di per sé un bene: la logica del consenso e del consumo è estranea alla natura più vera della poesia.
Personalmente credo che a distinguere la poesia dalle altre espressioni letterarie sia proprio la sua forma, che si basa su una forte concentrazione di senso: in poesia forma e contenuto sono la stessa cosa, perché senza l’una non si dà l’altro e viceversa. Non si deve temere di tenere troppo alta l’asta della tecnica a discapito dell’accessibilità del messaggio. Questo mi ha portato a sviluppare una poesia in cui la ricerca sul linguaggio è fondamentale, forse la ragione prevalente. Il linguaggio che, a mio giudizio, meglio rappresenta questo insieme di esigenze è un linguaggio ibridato che combina registro colloquiale e aulico (talvolta con citazioni iper-letterarie o termini desueti o molto ricercati), terminologia di uso quotidiano e lessico tecnico-scientifico (desunto dalla matematica, dall’informatica, dalla chimica, dalla fisica), elementi che spesso si ritrovano congiunti nello stesso testo: credo infatti che questo mélange sia adatto a incarnare la complessità della civiltà contemporanea, il suo ribollire magmatico e contraddittorio. Questo uso del linguaggio vuole spesso creare un effetto straniante per denunciare gli errori della nostra civiltà e spingere il lettore ad una presa di posizione netta, di dissociazione: di questo espediente si fa largo uso soprattutto in “Zero al quoto”, dove lo scarto ironico o dissacratorio è pervasivo e realizzato mediante vari espedienti tecnici (dal neologismo alla paranomasia, dallo spiazzamento semantico all’insistente accentazione sdrucciola, etc.).
Qual è stato, ad oggi, il più grande insegnamento ricevuto in dono dalla poesia?
La poesia insegna soprattutto l’umiltà verso sé stessi, in primis, e verso gli altri (uomini e esseri viventi in genere, quindi il rispetto del nostro mondo in senso lato). Fare poesia è fra le arti più difficili, significa procedere per piccoli passi nella propria ricerca, pur sapendo che la meta è di per sé stessa irraggiungibile. Significa anche riconoscere le proprie fragilità, mettere sotto accusa le proprie debolezze di uomini e di comunità, denunciarle e tentarne un riscatto sempre molto problematico.
Sempre citando il Pound del canto LXXXI, la poesia ci aiuta a deporre la nostra vanità: solo con il suo tramite, riscoprendo il valore della parola, è possibile riappropriarsi di una prospettiva autenticamente umana.
“Master thyself, then others shall thee beare”
Pull down thy vanity
Thou art a beaten dog beneath the hail,
A swollen magpie in a fitful sun,
Half black half white
Nor knowst’ou wing from tail
Pull down thy vanity
How mean thy hates
Fostered in falsity,
Pull down thy vanity,
Rathe to destroy, niggard in charity,
Pull down thy vanity,
I say pull down.
traduzione
“Dominati, e gli altri ti sopporteranno”
Strappa da te la vanità
Sei un cane bastonato sotto la grandine,
Una pica rigonfia in uno spasimo di sole,
Metà nero metà bianco
Né distingui un’ala da una coda
Strappa da te la vanità
Come son meschini i tuoi rancori
Nutriti di falsità.
Strappa da te la vanità,
Avido di distruggere, avaro di carità,
Strappa da te la vanità,
Ti dico strappala.
Per concludere, ti invito a scegliere tre poesie dal tuo nuovo libro, “Zero al quoto” per salutare i nostri lettori.
NEMESI
Scende la sera sera e si confonde
col rumore del forno a microonde
(Andrea Zanzotto)
Riordinò con cura le stoviglie
quel catalogo di banchetti sfatti,
sempre un passo indietro dalla riuscita,
la figurina rara o il punto fragola
che mancano, o l’impasto che s’infradicia.
Nella spunta esatta dell’inderogabile
adempimenti – pochi – da concludere
come chiudere le imposte, il rubinetto
del gas, l’interruttore generale
e casomai innescare l’allarme.
A domani interventi straordinari
come mettere a bolla la tavola
che traballa, una lacrima di tinta
per rimediare in corner la ricrescita,
regolare il flusso sodio-potassio.
Così cassò un’altra sera dall’indice
anch’essa trascorsa, nulla d’aggiungere.
Ne svelse le orme e i tralci più sporgenti
prima che vi s’impigliasse una brezza
una scoria d’ostrica, qualche granello
di sale. Vita, o almeno un suo detrito.
*
Le case non ci accolgono. Rinnegano
i passi che le persero, le mani
che v’incisero i muri tacca a tacca
con l’irruento crescere dei figli
ed i volti ammansiti alle finestre
da un alfabeto minimo di luce.
Trattengono di noi la sottrazione
l’ambiguo marchio della nostra diaspora.
Preservano la nudità dei chiodi
sagome annerite di quadri e mobili
relitti di giocattoli. Così
dimenticano i corpi, il loro oltraggio.
*
Hai ragione, Piero, siamo alberi
spicchiamo frutto, da radici che
non ci appartengono, o meno ancora
saprofiti che ineriscono a schegge
di corteccia, ad una cruna di verde,
e come dici, poesia è questo
porgere la mano, sperare prossimo
il cambio della guardia, e continuare
nella corsa, passare la staffetta
già sapendo la meta irraggiungibile
fragile la parola, perché l’unico
eterno che perdura è l’impossibile.
Perfetto nel non darsi.
Restano mani abrase, franto il fiato
l’orlo di buio che ci ha arato il viso.