Flaminia Cruciani, ‘nella poesia le parole si rivitalizzano’

Flaminia Cruciani nella foto di Dino Ignani

«Ho partorito l’umanità / nei boschi dell’indifferenza / quando rovistavo nella vertigine del cielo / come in un cassonetto. / Poi ci sorprese l’amore / e sotto quel cielo guasto / noi tacevamo nella stessa lingua». Versi di Flaminia Cruciani scelti dal nuovo notevole libro “Semiotica del male”, edizioni Campanotto. Un libro nel quale, come scrive il prefatore Tomaso Kemeny, il «male imposto dalla Realtà non viene mascherato, truccato, ma costretto a incedere sotto i riflettori del senso analogico, come funtivo fondante le forme del comprensibile, una vera chiave ermeneutica: ‘Mi serve il male, mi serve a capire’». Un libro introdotto da un grimaldello, una “Risposta” della stessa autrice al filosofo francese Emmanuel Lévinas: «I segni che racchiudono l’infinito si concentrano in un punto dell’universo che si chiama uomo e ne fanno un punto sterminato che contiene il bene e il male, come sponde della stessa acqua». Un libro prospero di immagini. Leggendolo avvertiamo una presa di contatto con Maurits C. Escher, risalta l’assonanza, (di)segnare con animo l’aspetto dualista del nostro esistere: bene-male («Leccherò l’oscurità / fino a esaurirla»), vita-morte («la mia vita è fiorita a morte»), mente-corpo («c’è troppo amore nell’odio / vivono l’uno dell’altro, dello stesso sguardo»), luce-buio («in virgole di luce mi addestravo al perdono»), vero-falso («Nel suolo inverosimile dei miei pensieri / la menzogna risplende in ogni verità»). Così, in un libro impregnato di preghiera («rammendo di luce senza fine»), il male è un ‘segno’ necessario «a comprendere, a rivelare / il mondo, a difendersi».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Non ricordo un aneddoto legato a una prima poesia, in effetti, ma ricordo un quaderno, era a quadretti, che sempre mi accompagnava sin da piccola, dove scrivevo tutto quello che mi accadeva e che osservavo con lo sguardo quasi da fenomenologo; sono sempre stata molto curiosa. In ogni momento, anche drammatico, ricorrevo al mio quaderno. Ricordo la morte di mio padre improvvisa che mi lacerò e il mio correre subito alla scrittura per fissare quella esperienza, in ogni dettaglio, per non perdere la memoria e i particolari di quei giorni. Quel diario divenne il consistente nucleo iniziale del mio primo libro, Sorso di notte potabile, edito da Lietocolle.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
È difficile rispondere a questa domanda perché le letture sono stratificazioni interminabili. In passato è stata molto importante per me la poesia sufi, Hāfez, al-Ghazālī, Rumi, Aṭṭār, Ibn ʿArabī e in particolare Nezāmī, con il suo romanzo in versi Layla e Majnun. Sono stati significativi anche i testi religiosi di diverse tradizioni e la letteratura mesopotamica di cui mi sono occupata per ragioni professionali. Poi, esulando dal campo poetico, certamente Platone. Alcuni autori sono stati importanti, come Italo Calvino, Cristina Campo e certamente Proust. Comunque ho lo sguardo sempre rivolto ai classici, ricordo di essere rimasta folgorata da Il Divano Occidentale-Orientale di Goethe, che lessi in Sudan durante una campagna di scavi. Ci sono stati molti amori anche passeggeri, ricordo un periodo in cui leggevo in modo forsennato tutta la letteratura giapponese. In particolare, amo la poesia romantica tedesca e anche molto la musica di quel periodo. Fra i poeti fondamentali per la mia formazione vorrei ricordare Novalis, la Rosselli, Keats, Rilke, Pavlovic, Pasolini, la Szymborska, Campana, Tarkovskij, Thomas, Yushij e Adonis.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Non possiamo dimenticare gli indimenticabili versi di Dylan Thomas:

“E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.”

Racchiudono la mia visione dell’esistenza, sono versi insurrezionali sul fuoco pagano e inestinguibile che arde e ci restituisce l’universo che siamo. Esprimono l’individuo che trascende se stesso nel primato dello spirito sulla materia, in cui la morte detronizzata, come dice Elitis, “non avrà mai l’ultima parola”.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Sicuramente la notte è il mio momento creativo migliore, in cui il silenzio amplifica l’interiorità e mi sento più viva e libera. Le immersioni sono assolute di notte, sono viaggi interminabili, a volte vedo albeggiare e mi rendo conto del tempo, chiusa nel mio studio, che si chiama “L’arsenale”, dove alle pareti ci sono solo libri. Spesso scrivo ascoltando Monteverdi o Gould che suona Bach. Ricordo momenti indimenticabili legati allo scrivere anche durante i viaggi, uno scrivere itinerante legato all’Oriente, dove ho viaggiato molto per ragioni legate agli scavi archeologici. Ho sempre portato con me taccuini di viaggio in cui annotare esperienze e impressioni. Ricordo i giovedì pomeriggio passati a scrivere ad Aleppo davanti alla cittadella, seduta all’aperto in un bar bevendo il succo di melograno.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione di poesia?
Come ho scritto nel mio libro Lapidarium (edito da Puntoacapo nel 2015) di aforismi, fulminee impressioni e piccoli componimenti, “Chiedere che cosa sia la poesia è come chiedere se la tela di Penelope fosse filata al dritto o al rovescio”. Temo che la poesia sfugga a qualsiasi definizione. Sicuramente condivido la visione platonica della poesia che esprime nello Ione: “I poeti sono tali per divina ispirazione”. Quest’assimilazione del poeta al profeta è espressa in un passo in cui Socrate dice “Infatti cosa lieve, alata e sacra è il poeta, e incapace di poetare, se prima non sia ispirato dal dio (entheos) e non sia fuori di senno, e se la mente non sia interamente rapita. Finché rimane in possesso delle sue facoltà nessun uomo sa poetare o vaticinare”.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Da un lato quando inaugura un suo universo personale, quando con parole essenziali riesce a offrire una visione del mondo e a far rivivere un’esperienza autentica. La poesia è come un tiro al bersaglio, in poche parole affilate, misurate e mirate coglie un centro.
D’altro lato non è mai compiuta, nel senso che non finisce o che potrebbe non finire. Alcune poesie danno l’impressione del compiuto, ma è un processo di elaborazione estetica, che parte secondo me da una tensione spirituale indeterminata che va verso l’ignoto, da un nucleo irrisolto che cerca una visione, una soglia, uno svelamento. Ed ecco che ritorna nuovamente l’analogia con il veggente, la poesia ha a che fare con una visione, è una forma d’iniziazione ai misteri, di prossimità al segreto, al nascosto, all’invisibile. Il testo che viene letto nei vari secoli, sempre in modo diverso, si compie nella lettura: ecco forse la poesia può dirsi compiuta nello sguardo di chi legge. E poi, dal momento che amo profondamente la musica, è fondamentale che abbia un bel suono.

La poesia può (e se può in che modo) restituire ‘purezza’ alla parola?
Premetto che non amo la parola purezza, perché richiama in me immediatamente l’idea della discriminazione e del separare. Però se intendiamo purezza nel senso metaforico di ripristino di una verginità, di un’energia originaria, allora sì, nel senso di una possibilità di recupero del potenziale arcaico della parola. Trovo che ci sia un aspetto generativo della poesia sulla parola, perché il linguaggio comunicativo è obsoleto, le parole della comunicazione sono sfibrate dall’uso, nella ripetizione codificata, rassicuranti per l’economia psichica degli interlocutori ma svuotate di significato. Nella poesia le parole assumono vita nuova, si rivitalizzano non sono prestate al potere e alla manipolazione delle esigenze quotidiane. Le immagini della poesia parlano al nostro mondo analogico, simbolico, inconscio. È interessante ricordare a questo proposito come parla di purezza Paul Valéry, in Poesia e pensiero astratto, “Dal linguaggio comune, dobbiamo estrarre una Voce pura, ideale, capace di comunicare senza debolezze o sforzo, senza stonature e incrinature la sfera istantanea dell’universo poetico, l’idea di un ‘io’ meravigliosamente superiore all’Io”

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
In quest’epoca contemporanea del post-umano, in cui l’uomo minacciato antropologicamente sembra ridotto a uno scopo, credo che la poesia sia una forma di resistenza formidabile. In un momento in cui l’uomo ha delegato come mai prima a protesi tecniche la sua sensibilità, anestetizzando parti crescenti di essa, tanto da sembrare assimilato a uno degli oggetti della tecnica, credo che la poesia sia un baluardo dei suoi valori spirituali millenari. Inoltre, siamo in un mondo in cui prevale l’aspetto espositivo rispetto a quello auratico, prevale un’arte dei valori espositivi grazie alla rete e anche la poesia può essere coinvolta negativamente in questo processo. Io tendo comunque a credere che “ciò che resta lo fondano i poeti” e che la potenza sciamanica della parola poetica (quando è lontana da derive di autoreferenzialità opaca e di sovraesposizione) sia in grado di risvegliare e di restituire l’uomo a se stesso. Proprio da questa convinzione nasce il mio impegno attivo nel movimento culturale “Poetry and Discovery”, fondato insieme con Tomaso Kemeny, Germain Droogenbroodt, Angelo Tonelli, Paola Pennecchi, Pietro Berra e Mirna Ortiz. La poesia attraverso le parole spoglia la realtà, apre nuovi orizzonti, è un procedere su quella linea immateriale ed estrema, che Celan chiama “Meridiano”, in un’approssimazione all’utopia.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Gli ultimi versi di Alcesti di Rilke
“Come la brezza che si leva al largo,/ il dio s’avvicinò, quasi a una morta/ e fu lontano subito dall’uomo/ a cui in un breve gesto egli donava/ tutte le cento vite della terra./Admeto, vacillante, li rincorse/ per aggrapparsi, come in sogno. E loro/ erano già̀ dove le donne in pianto/ gremivano l’uscita. Ma una volta/ ancora egli le vide il viso, indietro/ rivolto, in un sorriso chiaro come/ una speranza, una promessa: a lui tornare adulta dalla cupa morte,/ a lui vivente… /Allora egli le mani/ premette sulla fronte, inginocchiato,/per non vedere più che quel sorriso”.

Per concludere, ti invito a scegliere una tua poesia per salutare i nostri lettori.

Vi propongo un testo tratto dal mio ultimo libro Semiotica del male, pubblicato da Campanotto nel 2016, che parla dell’educazione spartana ricevuta da bambina.

Non sai a Sparta come si piangeva in silenzio
sulla somma degli antenati Dori
dai sepolcri affollati quando
si sposava un cielo inferiore
si malediva il padre e il suo
vangelo di bestemmie
screpolato dall’uso
ingoiati nel caos teologico
sporco di circo equestre.
Il cronometro scattava e si era già in ritardo
sull’addestramento guerriero
le catene da fissare con le
mani paralizzate dal freddo
per assaggiare la rovina di un miracolo
diventare forte come un esercito
una donna forte come un esercito
con l’orchidea schiacciata in pugno
a un passo dall’immortalità.
La pietà nucleare chiedevo
di poter piangere e gridare “riposo!”.
Avrei voluto una zattera di mandorle
ricoverarmi in un bacio.
Ma a portata di voce solo il silenzio
marciavo, la testa bassa
c’era un nemico da sconfiggere,
ero io.

*
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(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 07.05.2017, pag. 16, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”, Cultura).

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