Nel corso di oltre trent’anni di pratica clinica, ho assistito a un radicale cambiamento nelle forme del disagio. Accanto a una diminuzione progressiva di problematiche legate ai temi edipici classici, in personalità per altri versi strutturate e capaci di stabilire un rapporto sufficientemente realistico con i compiti esistenziali, ho visto emergere con sempre maggiore frequenza angosce generalizzate nella formulazione (e nell’attuazione) di un progetto di vita, sulla base di un’immagine di sé confusa e distorta e di un’autostima fortemente segnata in negativo dal confronto con modelli socioculturali avvertiti come normativi (la preoccupante diffusione dell’anoressia ne è un esempio). Oltre a forme di narcisismo patologico, nelle quali la precarietà del senso dell’Io viene ipercompensata con atteggiamenti fortemente inflattivi, sono emersi vari comportamenti ossessivo-compulsivi (nel tentativo di padroneggiare le angosce) e soprattutto dipendenze patologiche di ogni genere: da sostanze, cose o persone (nella fuorviante ricerca di gratificazione e rassicurazione). E dunque sempre più spesso ho visto la domanda d’amore tradursi in forme estreme di dipendenza dall’altro: persone intrappolate e umiliate in rapporti sentimentali frustranti quando non esplicitamente distruttivi, fondati sull’aspettativa di una impossibile fusione simbiotica con l’altro, sul possesso, sul controllo, spesso sulla violenza, sulla mancanza di legittimazione e di valorizzazione dell’esistenza autonoma degli individui coinvolti. In definitiva sulla mancanza di amore.
La cosiddetta società del benessere sembra dunque galleggiare su un diffuso e profondo malessere, connesso a quello stesso desiderio in eccesso, destinato come tale a rimanere insoddisfatto, che caratterizza sotto tanti aspetti il modello consumistico-dissipatorio in cui siamo immersi, nel quale i bisogni sembrano inesauribili e le emozioni ingovernabili.
Per descrivere questa situazione si è parlato di “evaporazione del padre”, un’immagine che fotografa, più che lo sfaldamento del ruolo paterno nella dinamica educativa e familiare, il progressivo dissolvimento del rapporto psicologicamente necessario tra desiderio e legge (in termini junghiani, e su un piano più strutturale, diremmo tra impulso e riflessione), ben visibile in una situazione, come quella attuale, nella quale sembra tragicamente assente ogni regola (ritenuta tradizionalmente una prerogativa paterna) che proprio limitandolo ‘libera’ il desiderio dalla sua obbligatorietà e lo consegna alla dimensione psichica e alla condivisione civile.
Ma non basta, a mio avviso, il riferimento alla scomparsa dell’elemento paterno tradizionale (di cui certo non è auspicabile né possibile il ritorno sotto forma di divieti e relativo senso di colpa) per render conto di tanta sofferenza nelle relazioni affettive, che è uno degli aspetti prevalenti della patologia psichica attuale, sul confine precario tra nevrosi e psicosi, tra comprensibili difficoltà di adattamento a una realtà sempre più confusa e contraddittoria e fragilità personali che affondano le loro radici nei livelli più arcaici della storia di ciascun individuo. Sono consapevole dell’impopolarità di questo rinvio alle fasi più precoci dell’esistenza, nelle quali un’altra figura svolge un ruolo ancor più fondamentale del ‘padre’ per quanto riguarda la futura capacità dell’individuo di modulare bisogni ed emozioni. E magari anche di contrapporsi efficacemente a modelli culturali alienanti.
L’impopolarità di questo riferimento alla prima infanzia e, dunque, alla ‘madre’, e l’ironia un po’ astiosa di cui a volte è oggetto la psicoanalisi quando si toccano questi temi, sono già espressione del problema di fondo che vi è connesso: ossia la relativa non conoscenza dei bisogni reali di chi viene al mondo in una condizione di pre-maturazione che lo pone in uno stato di totale dipendenza dagli adulti, troppo spesso inconsapevoli di quanto sia delicato il compito di accompagnarlo in modo ‘sufficientemente’ corretto verso la ‘nascita psichica’ e verso uno sviluppo affettivo equilibrato. Talora dando ingenuamente per scontato che la ‘natura’ sappia sempre indicare la via giusta. Ma la madre, ogni singola madre, è figlia a sua volta dei propri genitori, dei modelli familiari e sociali in cui è cresciuta, di ciò che ha ricevuto e subìto, e di tutto ciò che ha immaginato, progettato e realizzato per se stessa. Quando mette al mondo un figlio è carica, come ogni essere umano, di desideri, aspettative, condizionamenti, ansie, speranze e delusioni, oltre che di tutte le migliori risorse individuali, che nel loro complesso fanno di lei un essere ‘culturale’ più che ‘naturale’. Perciò è necessario che conosca la funzione psicologica e culturale a cui è chiamata nella scelta di essere madre, fermo restando che tale funzione passa necessariamente per una sfera affettiva sufficientemente matura.
Farsi spazio, fisico, psichico, mentale, dove accogliere e contenere le manifestazioni ancora prive di articolazione dei bisogni infantili e delle emozioni che li accompagnano: questa è una funzione materna cruciale. In primo luogo è ascolto, senza aspettative e pre-comprensioni, accettando di prendere dentro di sé anche l’angoscia più intensa del bambino, talora la sua aggressività, e di elaborarla, insieme alle proprie ansie, per potergliela poi restituire in una forma che lui possa a sua volta accogliere e metabolizzare: trasformata in un elemento comprensibile. E mitigare in tal modo quei terrori senza nome che nei momenti di massimo disagio sembrano capaci di annientarlo. Offrendogli nel contempo la testimonianza di un rapporto possibile con qualunque tipo di emozione e di bisogno, anche prima di riuscire a comprenderlo e formularlo. Senza averne più paura, via via che interiorizza la capacità materna di ascolto e la sicurezza della sua presenza sollecita: il bambino interiorizza un atteggiamento riflessivo che apre dentro di lui lo spazio della vita psichica e della relazione con l’altro. A partire da quell’altro interno costituito dalle sue stesse emozioni, di segno positivo e negativo, e dalle sue fantasie, creative e distruttive, che con l’aiuto di una madre non giudicante e non invasiva ha imparato ad ascoltare, a nominare, a riconoscere, e quindi in una certa misura a padroneggiare.
Qualcosa probabilmente non ha funzionato proprio a questo livello primario per quelle persone che continuano a riproporre anche nella vita adulta un modello di dipendenza e fusionalità nelle relazioni interpersonali, oppure per coloro che sembrano incapaci di tollerare ostacoli o differimenti alla soddisfazione di un bisogno/desiderio e che alla minima frustrazione vengono invasi da emozioni di cui non hanno nessuna padronanza e che possono anche tradursi in azioni violente. (Tralascio il tema della distribuzione statistica di questi due possibili esiti nella popolazione femminile e maschile, perché il discorso, coinvolgendo componenti sociologiche, politiche e culturali, porterebbe troppo lontano).
Studi condotti fin dai primi anni cinquanta attraverso l’osservazione diretta dell’interazione tra madre e bambino (per i primi due anni di vita e nel loro ambiente familiare) hanno dimostrato come una mancanza di sintonia (a volte determinata in proporzione variabile da un’indisponibilità emotiva della madre e da un atteggiamento troppo passivo del bambino, che non sollecita adeguatamente la risposta materna, o al contrario troppo esigente) possa generare un attaccamento insicuro fortemente segnato dall’angoscia di separazione, che prelude a una particolare adesività nelle relazioni future.
Quella mancanza di sintonia in certi casi può costituire una vera e propria esperienza traumatica. Con questo termine non intendo un qualche evento di gravità eccezionale, ma piuttosto la ripetizione e l’accumulazione nel tempo di atteggiamenti e comportamenti, all’apparenza insignificanti e del tutto ordinari, che non hanno trasmesso al bambino un senso sufficiente di accoglimento e riconoscimento della sua specificità individuale e di contenimento delle sue esperienze emotive. A determinare tali atteggiamenti possono essere i motivi più svariati: un eccesso di ansia, per esempio, o il dolore di una perdita, una precoce separazione provocata da una malattia fisica (della madre o del figlio), uno stato di depressione, la solitudine di fronte a compiti sentiti soverchianti, o le infinite altre ragioni personali (più o meno nevrotiche) che possono impedire a una persona, pur animata sul piano cosciente dalle migliori intenzioni, di ‘ascoltare’ realmente e decodificare le comunicazioni di un neonato che da solo non può quasi nulla per alleviare i propri disagi. Nei casi più gravi si può vedere il bambino ‘attaccarsi’ visivamente a una luce, a un oggetto, a una parete, o semplicemente al vuoto, per potersi in qualche modo ‘tenere’ con la fissità del proprio sguardo, in assenza di un saldo contenimento materno. Ma a lui sarà difficile interiorizzare questo sostituto inanimato, che non ha e non può avere uno spazio interno in cui accogliere ed elaborare i suoi bisogni e le sue emozioni. Lasciando così aperta una ferita che difficilmente si rimarginerà e intorno alla quale potrà strutturarsi una personalità fragile e dipendente o, al contrario, rigidamente difensiva e aggressiva.
È ciò che vediamo quando in età adulta una persona continua a vivere relazioni adesive perché ogni allontanamento dell’altro, e dall’altro, anche quando si sia rivelato incapace di stare nella relazione con amore, comprensione e rispetto, evoca il fantasma dell’abbandono, in questo caso da parte di chi ha ricevuto dalla persona stessa una delega in bianco a svolgere il compito impossibile di riempire vuoti affettivi incolmabili, dare significato alla sua vita, essere luce e sostegno del proprio senso di sé.
Per questo è tanto difficile ricondurre alla ‘ragione’ una persona patologicamente dipendente da una situazione che pure la fa soffrire: quella sofferenza è quasi totalmente ‘egosintonica’ ossia è un elemento che la coscienza dell’Io difficilmente è disposta a mettere in discussione, perché ciò implica il contatto con una sofferenza ancora più acuta e destabilizzante, indicibile, perché rimasta iscritta a un livello preverbale di esperienza.
Qui forse vediamo all’opera quella mortifera pulsione di godimento di cui ha parlato Lacan per descrivere la mancanza di limite e di regolazione, l’assenza di coscienza, che fa sì che un bisogno primario, rimasto insoddisfatto e non elaborato, assuma la stessa obbligatorietà di un istinto e ricerchi coattivamente la propria soddisfazione senza tenere in alcun conto il benessere personale dell’individuo (e in taluni casi, come sappiamo dalla cronaca, senza neanche curarsi della sua incolumità fisica).
Queste mie osservazioni, parziali e sicuramente incomplete rispetto alla variabilità delle singole situazioni, non devono essere intese come una colpevolizzazione della ‘madre’, anch’essa vittima troppo spesso di un immaginario collettivo che ne distorce la figura e ne condiziona i comportamenti, ma come un invito alla riflessione sul suo ruolo fondamentale nell’opera di ‘crescere’ individui quanto più possibile sereni ed equilibrati, anche a vantaggio della società di domani. Individui capaci di autoregolazione e di responsabilità, di rispetto per sé e per gli altri, non sulla base ricattatoria di un astratto principio di autorità, che dispensa premi e punizioni, ma grazie alla legittimazione che deriva da un amore che non è necessario meritare.