Franca Alaimo, “100 poesie”, una vitalità che trova pienezza nel miracolo dell’istante.

Il senso di finitudine che impronta l’esistenza sostanzia la poesia e si ritraduce attraverso immagini allusive a un’idea di archetipo. L’imminenza dell’addio e la luce sono le coordinate semantiche entro le quali questa nuova opera di Franca Alaimo può leggersi: il rapporto tra il peso degli anni e la memoria, tra una vitalità che trova pienezza nel miracolo dell’istante e una melanconia che fila le trame dell’irreversibile, permea il desiderio del congedo e del farsi prossimi e vivi all’assoluto. È come se Alaimo, parola dopo parola, rammentasse a sé stessa e al lettore che l’anelito all’assoluto è della stessa natura dell’assoluto: 100 poesie (peQuod, 2024, collana Portosepolto diretta da Luca Pizzolitto e Massimiliano Bardotti) è il risultato di una fenomenologia amorosa che esprime, nell’imminenza del congedo, una forte tensione conoscitiva verso l’intero e l’intimo delle cose.

Nota Alessandro Fo in prefazione:

“È come se in calce a questa aiuola di testi, ora attonitamente contemplativi, ora pensosamente sommessi, figurasse la sigla che ricorreva un tempo su certi biglietti da visita: ppc, ovvero per prendere congedo. «Il cuore già da tempo ha detto addio». Sullo sfondo, un riservato atteggiamento di preghiera, tentativo di conversazione con un Dio ancora piuttosto lontano («quelle lettere segrete/ che solo per paura io non Ti mando»), pur se qui vicino invece agiscono certi suoi misteriosi angeli. E, contestualmente, un profondo apprezzamento del bene costituito dall’esistere, e una sentita, velatamente commossa, riconoscenza per le offerte che la vita non solo ha presentato, ma può continuare a presentare finché il respiro durerà. «L’anima si difende/ sotto il trotto del sangue»”

La formazione di Alaimo è assai varia; nondimeno, Rilke vi occupa un posto di rilievo, in ispecie per la volontà di indagare l’esistenza nel suo costituirsi come alternanza di vita e dolore:

È la quinta Elegia*
a farmi male al cuore
là dove dice: E tuttavia,
alla cieca, il sorriso,
come se d’improvviso
vedessi fiammeggiare,
prima della devastazione,
il sacro delle cose.
E così tanto fosse lo stupore
da sentire il pianto
inondarmi gli occhi
e confondere nel suo sale amaro
le figure del canto e del dolore.

La luna, che in Alaimo ha connotazioni materne, si congeda anch’essa e tuttavia il suo congedo appare come votato a un sacrificio necessario, forse cristico:

Poi tutto scompare:
fiori d’oro, arance,
mal di luce.
Soltanto
notturne costellazioni,
ombre silenziose.

La luna
per morire
ha oscurato il viso.

La memoria dei defunti si alterna a quella del cuore ferito: la lingua assolve al suo compito di preservare le figure dell’assenza dal transitorio e dall’irreversibile:

Il silenzio delle mani vuote
nell’ora che porta via le cose.
La vetrata che il vento scuote.
Gli uccelli, la strada, le case
sotto il tetto cinerino del cielo.
Le fotografie dei morti sul comodino:
volti che furono sostanza amorosa,
perduti, laggiù, nel Grande Sonno.

Meditare sull’effimero è custodire. La parola altro non è che il segno di questa volontà:

Sull’erba, ovunque, addosso,
bianca come un mughetto,
la luna. Quel suo sgorgo
di luce come un occhio
nell’alto cielo scuro
che beve il tempo
affondato nell’acqua

Torna l’immagine della luna, cui si avvicendano quella di un cielo scuro, presago di morte, e dell’acqua. Il componimento inscrive la rappresentazione in una cornice atemporale, dove l’acqua riflette il succedersi delle stagioni della vita e nel contempo i cicli d’interruzione e rinascita.

Non tutto va nominato, le parole possono disperderne la gioia fanciullina che improvvisa si ridesta nell’animo dell’io poetante:

È nato il fiore dell’ismene
nel vaso di terracotta in balcone.
Un fiotto di stupore,
un occhio di luce pura.
Non lo nominerai.
Non chiamerai questa gioia.
Le parole vanno sempre altrove
e non sanno che farti cadere.

Non solo l’insufficienza della parola a nominare l’indicibile, ma anche a preservare lo stupore fanciullino che ancora alberga nonostante l’amarezza degli anni. Alaimo ricuce a ritroso memorie, il suo sguardo sprofonda nel tempo:

Il cielo della sera
ha grandi palpebre d’ombra.
Tutto sprofonda.
Il nulla si fa strada
come un rivolo d’acqua
da una brocca incrinata.
Annera l’erba del prato.

Nel prendere atto della parola come tradimento della cosa in sé, Alaimo constata come tutto sia poi unito da un solo destino, la sacralità della polvere:

Mentre guardiamo le foglie
vacillare e cadere
nella luce del sole morente,
ci diciamo l’un l’altra
sorridendo nel pianto:
Vedi com’è tutto leggero?
Nel luogo senza luoghi,
nel tempo senza ore
ci avvolgeremo come loro
nel grigiore
di un bozzolo di polvere.

E tuttavia, la luna è una presenza vigile nella vita della poeta: essa, del cielo e del nulla, riverbera il carattere atemporale del tornare al principio:

Quando la luna si apre
come un fiore colmo
bianchissimo e la vastità
della notte sconfina
in un silenzio attonito,
ti sembra di sentire
come un cigolio
di cancelli dischiusi
(saranno stati gli angeli
o le piccole anime erranti?).
E sai che per un immisurabile
istante ogni cosa è tornata
al suo principio.
Si inebriano di canto
le gole delle allodole
nel primo biancore dell’alba

L’incanto è coessenziale al desiderio di penetrare l’intimità e il bagliore delle cose. Da esso deriva la pietà che Alaimo nutre verso tutte le creature, viventi e non:

Dio.
Nelle sue mani
si fanno e disfanno
le forme delle cose.
Dice:
Tutto accade per lo stupore.
Però piange:
Non so più
quando e come
ho cominciato a morire.

Una strenua volontà di capire anima la poesia di Franca Alaimo, una sapienza della vita quotidiana che mai paga di sé piange perché viva e desiderante:

Da tutte le parti
si affollano gli angeli.
Dico: perdonatemi,
se non ho capito.
Vi prego: insegnatemi qualcosa
che abbia senso,
qualcosa che non diventi
sempre meno vivo
fino a sparire in questo
                                    vuoto

“Non ci si prepara alla separazione ma ci si preserva per il tempo della separazione”, scrive Antonio Prete. Così, Alaimo muove verso il silenzio della lingua appartandosi ora nel pianto ora nella gioia delle cose del mondo. Spettatrice discreta, in dialogo con le forme della sofferenza e della luce:

Sono una che parla alle cose
e non ha misura.
Che sta dentro tane di neve.
La più sola, la più leggera.
Ornata di nomi, di versi, di canti.
La mia anima è tutta minerale:
una grotta di lapislazzuli e di opali
che luccicano di notte e di giorno.
Vieni a trovarmi quando ti ammali
quando non vuoi più mangiare
e la vita gocciola amara nelle vene. 

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