Giuseppe Carlo Airaghi, “la poesia è uno sguardo non addomesticato”

tre domande, tre poesie

Giuseppe Carlo Airaghi è nato e vive in provincia di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesia “I quaderni dell’aspettativa” (Italicpequod, 2019), “Quello che ancora restava da dire” (Fara Editore, 2020) e il romanzo “I sorrisi fraintesi dei ballerini” (Fara Editore 2021). Suoi componimenti sono inclusi in “iPoet Lunario in Versi 2019” (Lietocolle, 2019) e sulle pagine web delle riviste letterarie “Versante Ripido”, “Il Punto Almanacco di poesia”, “Il raccoglitore”, “LiberoLibro”, “Suite Italiana”, “Il Visionario”, “Kult Underground”, “Poesia Ultracontemporanea”, “Centro Culturale Tina Modotti” e “Poeti Oggi”.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia; la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?

Oggi non sono in grado di definire quale debba o possa essere la lingua ideale della poesia. A malapena sono in grado di abbozzare un’ipotesi a riguardo della lingua della mia poesia, di quella che scrivo attualmente. Se fossi pienamente coerente con questa introduzione dovrei passare direttamente alla prossima domanda; azzarderò invece un tentativo di risposta perché ci sono già troppe domande inevase al mondo e soprattutto perché non si possono trovare risposte se non si affrontano le domande. Sono consapevole che il particolare utilizzo della lingua sia ciò che distingue la poesia dalle altre manifestazioni letterarie ma nel mio modo di intendere la scrittura non è la lingua ma è l’occhio l’organo primario. La poesia è, per me, uno sguardo non addomesticato, un modo particolare di guardare le cose del mondo, di cogliere realtà e speculazione da prospettive e punti di vista inusuali ed eccentrici. Una peculiare visione che in campo artistico può esprimersi attraverso medium differenti (pittura, cinema, letteratura, musica…) e che come risultato spalanca orizzonti inaspettati, produce e restituisce idee e immagini stupite, non conformi, marginali e conseguentemente emarginabili. La poesia, intesa come componimento letterario, è un oggetto molto elementare, composto esclusivamente da parole e nelle mie parole vorrei convergessero le immagini frutto della mia visione e la voce addestrata dal mio personale vocabolario, dal luogo e dal tempo in cui vivo. La lingua è, per me, la conseguenza della visione e il veicolo necessario per esprimerla. Se la poesia si limitasse ad un lavoro sulla lingua non sarebbe che un gioco di prestigio, un esercizio di stile, uno sfoggio di cultura e di abilità enigmistica. Nella scrittura tendo a evitare le eccentricità forzate e cerco di mantenere un lessico condiviso e una costruzione sintattica semplice, anche a rischio di sfiorare il prosastico. Ritengo che questa scelta estetica sia contemporaneamente una scelta etica.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì sovraindividuale), qual è la tua opinione in merito?

Nella mia esperienza di lettore di poesia quando mi imbatto in immagini efficaci le riconosco come portatrici di significato ancora prima di comprenderle razionalmente. Questo avviene quando esiste un collegamento tra la mia esperienza e l’immagine metaforica, personale e soggettiva che il poeta manifesta, quando la soggettività dell’artista esprime un valore simbolico che è universalmente condivisibile e riconoscibile. Il simbolo “è una proiezione della soggettività verso il mondo” e il valore dell’operazione artistica sta in questa soggettività che si fa condivisibile e riconoscibile tanto da permettere al lettore di farla propria. Quando questa generosità o questa capacità non si concretizza si innesca un cortocircuito che esclude il lettore. Per il mio gusto di lettore questo avviene quando mi scontro con testi così solipsistici e ombelicali da rasentare il masturbatorio, tesi verso una artificiosa complicazione del lessico dove la parola si sgancia dalla vita per dire soltanto se stessa e finisce per escludere il lettore e allontanarlo dalla poesia. Da parte mia tento di confrontarmi con temi quotidiani e universali: il senso di colpa, di inadeguatezza, le ipocrisie che ipocritamente perdoniamo solo a noi stessi, insomma le crepe che ci segnano e tento di farlo usando dettagli visivi chiari, contestualizzati e comprensibili, e quando possibile simbolici. Per lo meno questa è l’ambizione, riuscirci è un’altra cosa.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dai tuoi libri “I quaderni dell’aspettativa” e “Quello che ancora restava da dire”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ho scelto “L’amante dei gatti” non perché sia un testo particolarmente riuscito e neppure perché ci sia particolarmente affezionato. L’ho scelto perché è un sopravvissuto. Da poco tempo ho trovato il coraggio e la presunzione di condividere le mie poesie ma è da quando ero ragazzino che scrivo. La maggior parte di quello che ho scritto negli anni è finito giustamente nel cestino della carta straccia, non questa poesia che ha resistito caparbia a decine di modifiche e ritocchi. Fa parte di una sezione intitolata “Le voci dall’altra parte del muro”. Tutta la sezione è un furto all’antologia di Spoon River, là parlavano i morti qui parlano i malati mentali. In un caso e nell’altro la voce narrante non ha più necessità di mentire.

 

Sul bordo delle cose

Si finisce così a guardare il mare
nei vuoti pomeriggi di inverno,
a cercare la linea dove diventa cielo
si capovolge e ci confonde.

Si finisce così a scrivere parole
sui bordi bianchi dei giornali,
a vederle bruciare
e confondersi con la nebbia.

*

 

Di padre in figlio, ancora

In un sogno sgradito,
che avremmo tentato di dimenticare
una volta spalancate le persiane,
un figlio (restiamo sul generico)
colpiva in pieno volto il padre con un pugno,
rompendogli gli occhiali comprati da poco,
un patto considerato implicito
e i progetti per le vacanze future.
Ma al di là dello strepito incluso
e dei rimorsi che verranno velocemente elusi,
a quella drammatica scena mancò
una reazione conseguente
e una colonna sonora adeguata
(se si esclude il sottofondo singhiozzante
del pianto, responsabile, della madre)
(Si compiono gesti che appaiono enormi
eppure non sortiscono conseguenza alcuna.
Non solo non producono reazioni proporzionali
all’enormità del gesto compiuto
ma rischiano addirittura di passare in cavalleria).
Il figlio uscirà comunque
incontro alla sera che lo aspettava
uguale a mille altre che l’hanno preceduta
conservando nelle tasche dei calzoni
lo sconforto di qualcosa di perduto
a cui non si potrà più chiedere “per favore”.
Il padre, inabissato nel divano,
comprenderà di avere sprecato un dono
per il quale non era giusto pretendere riconoscenza.
Capirà che tutti avevano ragione tranne lui.
Seguiterà a seguire in televisione
(gli occhiali tenuti insieme dal nastro adesivo)
la seconda parte di un documentario
su di un pittore morto suicida.
Terrà a bada l’anima sotto una coperta con le frange
rimpiangendo i tempi in cui aveva una bella voce
e amava cantare
illudendosi di essere un contemporaneo.

 

*

L’amante dei gatti

A differenza mia
il mio gatto,
che fiducioso mi si acciambella al fianco,
non sa
che ancora dovrà ripararsi dalla pioggia,
assistere impotente al volo delle rondini
dal cornicione dirimpetto,
dovrà fuggire l’insidia del cane,
l’indifferenza letale delle auto,
dovrà graffiare per gioco
la mano che lo stuzzica,
dovrà ammalarsi, invecchiare, trascinarsi nell’angolo
che sceglierà per morire.
A differenza mia il mio gatto,
che sonnecchia ore sul divano,
non conosce l’oppressione del domani,
non lo teme, non si affretta.
Non conosce il tempo,
le sue unghie implacabili
che gli scavano i tendini.
Sarà per questo che mi guarda superbo,
perché possiede il dono prezioso e improduttivo
di non comprendere nient’altro
che l’attimo che sta vivendo.

 

*

Excusatio non petita…

Nato in un paese di modesti temporali,
in un tempo rassegnato alla brina,
non mi resta che ambire
ad una mediocrità accettabile,
guardare scivolare le nuvole
oltre la linea affilata dei tetti
mentre con il coltello da cucina
tolgo le punte ai fagiolini
e canto canzoni a bocca chiusa.

 

*

La foglia verde

Qui, dove tutto ci dimostra
che è solamente febbraio
(quale altra definizione potremmo azzardare?),
sediamo, dando le spalle al senso di marcia,
sedotti dall’illusione che si tratti di un gioco
che potremo interrompere
al richiamo per la cena,
una sorta di autoconsolazione,
un lieto fine scontato in dissolvenza.
Ci arrendiamo al sollievo
della rassegnazione della sera,
mettendo a tacere l’impressione sgradita
di non aver compreso appieno i segni
che avrebbero potuto rivelarci i motivi.
Il traffico è un alone trascurabile
sulla condensa umida dei vetri,
le donne che attraversano la strada
sono donne bellissime
nei loro cappotti di luce,
nei loro volti di erba nuova,
nelle promesse dei loro silenzi.
Persino il conducente del tram,
a quest’ora di sera, nel tepore che stordisce
accarezza i propri desideri muti
nel silenzio di uno sguardo dritto sulla strada
e abbozza un sorriso di foglia verde
malgrado il buio
di questo febbraio.

 

*

La visione del mondo dal mio letto

Lo specchio sulla cassettiera
mostra il vuoto della parete bianca.
Se mi sposto, anche di poco,
svela una macchia di ciclamino
sopra il muro cieco del cortile,
spalanca il riflesso
di un cielo inoffensivo, bianco
come il palmo della mano incisa
dai solchi della luce filtrata
tra le aste delle persiane.

Lo specchio spalanca assenze, le colma,
accoglie prospettive insospettate:
il viso di un uomo mi guarda
dal margine di una foto di gruppo,
non sorride come gli altri compagni
ai giorni che dovranno venire,
ne agli sguardi che giudicheranno le pose,
al caso in procinto di mutarsi in destino,
alle asserzioni sconfessate
da un breve riflesso di luce.

 

 

 

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