Giuseppe Condorelli: il poeta è uno che sta appostato.

giuseppe condorelli
Giuseppe Condorelli nello scatto (sfocato) di Paolo Lisi

Giuseppe Condorelli insegna Lettere nella scuola superiore. Si occupa attivamente di poesia, critica letteraria e teatrale. Un suo testo per Marco Nereo Rotelli, è stato pubblicato ne “L’Isola della Poesia” (Convegno Edizioni Quaderni dell’Isola, 2003). Ha ideato e curato rassegne di incontri con l’autore e kermesse d’arte in collaborazione con la cattedra di Plastica Ornamentale dell’Accademia di BB. AA. di Catania e l’associazione culturale “Interminati spazi”. Ha curato la sezione Poesia per il progetto “Castelmola Città degli Artisti”. Nel 2008 ha pubblicato “Criterio del tempo” (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, Bologna). Nel 2011 due sue liriche sono state messe in musica da Mariano Deidda nel cd “Deidda canta Pavese”. Nel 2013 ha curato per l’Almanacco Internazionale di Poesia edito da Raffaelli il “Quaderno” dedicato alla poesia oggi in Sicilia. Vive a Misterbianco (CT). In occasione della recente pubblicazione del libro, N’zuppilu n’zuppilu – Wet through, edito da Le Farfalle, distinto dalle traduzioni di Maristella Bonomo e Andrew Brayley, e dai disegni a china di Tano Brancato, lo abbiamo intervistato.

Qual è il ricordo legato alla tua prima poesia?

Se devo riferirmi all’intuizione di una visione poetica, “altra”, della realtà il ricordo diretto, immediato, primigenio è quello del mare, della playa di Catania, durante la mia infanzia: cabine verdi e granita alla mandorla. Mia madre che porge a me e a mia sorella un accappatoio di spugna blu, dopo il bagno. Il silenzio infinito di quelle prime ore del mattino che non rivivrò mai più.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

È stata una formazione felicemente disordinata, caotica. Al limite dell’anarchia: dai fumetti al jazz passando per la fantascienza. Il mio primo libro di poesia, custodito gelosamente nella libreria paterna, è stato le “Roba’yatt” di Omar Khayam: la minuscola ed elegantissima prima edizione dell’Universale Einaudi del 1956. Ne trascrissi subito un paio. Conservo ancora quei fogli e l’eco di quei versi straordinari. Poi i Canti di Leopardi, che un vecchio mangiadischi mi restituiva con la voce di Arnoldo Foà. L’Ecclesiaste, Luzi, Campana. Gli altri li ho scoperti e aprrezzati lontano dall’università, in corso d’opera, per così dire. Fare dei nomi è difficile: Ripellino, Fortini, Borges, Rilke, Benn per la poesia. Seneca, Bufalino (letto in classe, di nascosto, durante l’ultimo anno di liceo), Sciascia e Lobo Antunes per la narrativa. Ma sto facendo torto a tantissimi altri. Questi sono i primi che mi vengono in mente. Ah, dimenticavo, il “seriale” Gerard De Villiers!

Per Auden un poeta è, prima di tutto, un uomo appassionatamente innamorato del linguaggio. Per Condorelli?

Non so cosa sia un poeta. Forse un individuo che cerca il senso della sua stessa scrittura, che risale all’origine di questo atto. Che cerca di offrire un senso ulteriore alla parola. Il poeta è uno che sta appostato.

“Tuttu si sfranzuma / e do scuru / non si fa mai jornu. […] Do scuru do tempu / non si fa mai jornu.” (Tutto si sbriciola / e dal buio / non si fa mai giorno. […] Dal buio del tempo / non si fa mai giorno.). Ho scelto i tuoi versi per introdurre quest’interrogativo: fatta per creare, la poesia può restituirci al chiarore delle ‘prime luci’ senza l’artificio delle invenzioni?

Se c’è artificio non è poesia, almeno per me. Bisogna sapere distinguere la poesia – come ho imparato a mie spese – dall’intenzione della poesia. L’invenzione afferisce invece a quello che siamo, al grumo, luminoso e oscuro ad un tempo, che portiamo dentro. In fondo la radice della parola deriva dal latino “invenire” cioè: “ritrovare ciò che era celato”.

La peculiarità del tuo nuovo libro, N’zuppilu N’zuppilu – Wet through, è la duplice traduzione dei testi scritti in dialetto siciliano, oltreché nella lingua italiana, in quella inglese (a cura di Maristella Bonomo e Andrew Brayley). Tradurre è creare un verso nuovo, sostiene Guido Ceronetti con il quale siamo d’accordo. Qual è la tua idea in proposito? Pensi che la poesia è realmente traducibile?

L’idea della versione in inglese, anche se nata quasi per gioco, è una metafora della nostra modernità. Si spostano le persone così come le parole. Traduzione dunque come passaggio, come migrazione, attraversamento. Certo, tradurre è anche “tradire” ma anche arricchimento: il linguaggio – come la vita e la storia – è dinamico e mobile per sua essenza. Il problema è complesso, figuriamoci, ma credo che la poesia debba essere tradotta anche solo per il piacere di accostarsi, con la massima onestà, ad un testo per ri-crearlo.

Riporteresti un piccolo stralcio di testo nel quale sei solito “rifugiarti”?

“Alcuni di voi mi hanno insidiato, teso trappole, atteso al varco. Quelli che sono giunti ai miei occhi, per il tempo loro concesso, han provato stupore della mia carne vera, ma cosa avevano davanti se non la boa che segnala il continente sommerso, e le sue fosse e le cime invisibili sotto il pelo dell’acqua?” (Andrea Pazienza)

Pensando al tuo essere animatore di “IsolaPoesia”, assieme al poeta Paolo Lisi, ti chiedo: in un’epoca carente di capacità d’ascolto e consapevolezza in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della poesia e, più estesamente, della cultura?

“IsolaPoesia” nasce dalla ricerca di un confronto diretto con le voci più autorevoli della poesia italiana e con le altre espressioni artistiche. Un confronto che deve essere contatto, relazione, testimonianza. È stata, e continua ad essere, una esperienza formativa eccezionale. La lezione, la direzione deve essere sempre quella e la cultura, nel suo insieme, non può sottrarvisi: cultura è apertura, investimento nella memoria personale e collettiva, accoglienza.

Pensando, altresì, al tuo ruolo di insegnante ti chiedo: oggigiorno, tra le numerose difficoltà che conosciamo, essendo la scuola sottoposta ad una egemonia performativa, valutativa, di stampo economista, in che modo un insegnante può muoversi per trasmettere ai propri studenti l’amore per la letteratura e per la poesia?

La domanda, purtroppo, contiene la risposta. Mi accosto alla poesia con grande discrezione, evitando le necroscopie. A volte la semplice lettura di un testo contemporaneo può essere uno strumento tanto imprevisto quanto utile per schiudere loro un mondo sconosciuto. La cosa più importante è l’atteggiamento nei confronti della poesia e della letteratura in generale che non può non essere esistenziale, partecipativo, emozionale.

Per concludere, ti invito a scegliere una tua poesia per salutare i nostri lettori.

È un testo tratto da una raccolta inedita, è dedicato a Catania.

La città ha una luce affilata
i suoi rami sono i capillari
del cielo. Gli incroci
hanno nostalgia della neve
e dei cortili d’estate
che inseguono le divinità
dello scirocco oltre i palazzi
e le edicole notturne.
I morti chiamano invano
dalle tombe d’arenaria
gettano una pietra
all’ombra del primo passante
smaniano per un gesto
per la voce che li restituisca
all’odore del pesce
e al rumore delle tazzine nei bar.
Dalle lave dove scorre
il sangue delle ginestre
dal verde estremo dei giardini
la città si apre sui muri
che estinguono il mare.
All’alba, quando conta
lo schianto dei cavalli
lanciati sui controviali
la città sogna
finalmente il fiume,
traccia sul cemento dei moli
i nomi di chi resta
le latitudini e il vento
di ogni viaggio
e supplica
per tutte le partenze
mentre sulle panchine
le sillabe dei baci
sbiadiscono
in un filo di mani.

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