Giuseppe Conte, “La poesia deve essere una guerriera spirituale”.

Giuseppe Conte, ph di Dino Ignani.

«C’è una dolcezza giù nella vita». Verso emblematico scelto per titolare l’incontro-omaggio al poeta Giuseppe Conte, che, nell’ambito di “Naxoslegge”, in sinergia con il “Parco archeologico di Naxos-Taormina”, diretto da Gabriella Tigano, e “TaorminaArte”, si terrà oggi, al teatro “Odeon Taormina”, ore 20.00, ingresso libero. «Con “Naxoslegge” Giuseppe Conte (nella foto di Dino Ignani) ha un rapporto cementato negli anni, da quando fu ospite nel 1998 per un progetto lettura organizzato dal Liceo Caminiti, in occasione della pubblicazione de “L’impero e l’incanto” – dichiara la direttrice di “Naxolegge”, Fulvia Toscano -. Questo omaggio, da parte di dieci giovani poeti siciliani, vuole essere il riconoscimento del valore della grande poesia di Conte, da noi, da sempre, ritenuto una delle voci più significative e, soprattutto, più originali del panorama della lirica italiana. La Sicilia, terra del Mito, omaggia il Poeta del Mito».
Nell’occasione lo abbiamo intervistato chiedendo, per cominciare, di raccontarci di un ricordo legato alla sua prima poesia. «In assoluto, la mia prima prova in versi è una traduzione dall’inglese di Chaucer. Il mio primo componimento poetico, sempre attorno ai 14 anni, in quarta ginnasio (prima ero stato appassionato di astronomia e di musica, studiavo il clarino e mi ero già innamorato del jazz) è stato un sonetto in stile carducciano, con endecasillabi un po’ roboanti e un assunto un po’ retorico. La passione però era autentica, ed era giusta, io credo, l’idea che la poesia zampilla dalla poesia, che occorre un umile apprendistato, per poi arrivare a elaborare uno stile personale. Declamavo il sonetto senza vergogna a chiunque passasse da casa dei miei. Cosa che non avrei mai più ripetuto negli anni seguenti».

Quale poeta e relativi versi non dovremmo mai dimenticare?

«Ognuno ha un suo scrigno privato di versi e poeti che non dimentica. Non c’è una regola. Per me ci sono Mallarmé, Baudelaire, Foscolo, Goethe, Shelley, e poi Sbarbaro, Montale, Palazzeschi, Ungaretti, Pavese. So molto poesie a memoria, tranne le mie. Me le recito mentalmente, o le propongo durante le mie letture all’estero. Una sera al “Palais de Tokyo”, a Parigi, lessi Sbarbaro, e da lì il caro semisconosciuto grandissimo poeta ligure ebbe la sua prima traduzione in francese. E poi Dante: non solo quello della Divina Commedia. Io credo che nessuno dovrebbe trascurare “Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, un sonetto dove in sintesi c’è tutto quello che è bello nella vita: l’amicizia , il viaggio, il mare, la magia, la bellezza, l’amore. Consiglio a tutti di impararlo a memoria».

Riporterebbe una poesia o uno stralcio di versi (o di testo) nel quale all’occorrenza ama rifugiarsi?

«Oltre il sonetto appena citato, questi versi di Ungaretti: “L’amore non è più quella tempesta/ che nel notturno abbaglio/ ancora mi avvinceva poco fa/ tra l’insonnia e la smanie,// balugina da un faro/ verso cui va tranquillo/ il vecchio capitano”. Leggo, e mi sento un vecchio capitano d’amore».

Qual è la sua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

«Tanti anni fa, scrivevo che la poesia è una mano tesa nel buio, in attesa che uno sconosciuto la stringa. Oggi non so se ho ancora quella fiducia. La poesia mi appare sempre il canto dell’universo, il punto più alto in cui arriva una civiltà, e nello stesso tempo il più misconosciuto a tradito. I sogni a occhi aperti dei poeti disegnano il mondo, ma poi altri li imbarbariscono e li rovinano. La poesia è energia spirituale che si cala nel linguaggio immettendovi una musica inaudita. Preserva per noi gli antichi dei e tutto ciò che è ancora sacro nel mondo. È irriducibile, ribelle, o almeno io così la amo ora».

Quando una poesia può dirsi compiuta?

«Ho scritto poesie in un quarto d’ora, e altre in un anno, rifacendole anche cinquanta volte. Devi sentirlo tu quando una poesia è compiuta. Quando il tuo sogno e il tuo suono corrispondono alle righe che hai sul foglio. Ci sono delle volte che vorresti correggere all’infinito, perché infinite sono le possibilità del linguaggio, della metrica, del ritmo. In quel caso vale il principio di smettere quando capisci che hai dato il massimo, e che oltre non potresti andare».

La poesia necessita più di ascolto o di essere ascoltata?

«Più che la poesia, è il poeta che necessita di una grande capacità di ascolto. Ascolto delle voci del mondo, delle cose, degli altri, della vita. Ascolto e curiosità sono necessarie per qualunque forma di scrittura. Puoi ascoltare le onde, gli alberi, i motori, i respiri, i gridi, i battiti del cuore, ma devi sempre tendere verso l’inascoltabile. Verso il segreto silenzio dietro le apparenze del mondo. Invisibile e inascoltabile, a ciò tende la poesia. Che poi abbia bisogno, una volta scritta, di essere ascoltata è chiaro. Appartengo alla prima generazione di poeti italiani che hanno letto da subito in pubblico le loro poesie, a teatro, ai festival, in televisione. Credo sia un bene che la poesia raggiunga l’ascolto di chi forse non la scoprirebbe mai in un libro».

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

«Guarda, io non sono di quelli che amano il minimalismo snobistico per cui la poesia non serve a niente e non cambia il mondo. Anzi francamente lo detesto. Che mai ti chiede di scrivere poesie? Se non serve, hai tante altre cose da fare. La poesia deve avere un fine, deve proporsi un fine, darsi un “incarico” come dici tu. Nell’insensatezza del mondo, della società e della vita individuale, deve creare senso: deve cercare, deve sviluppare conoscenza. Oggi poi deve ribellarsi alla montante marea di barbarie. Deve essere una guerriera spirituale. Così piace a me. Mi piace la poesia che insorge. Che si pronuncia sul mondo, che dà vita a visioni e utopie. Mi piace anche quella che parla del più umile dei fiori, della più tenue sensazione. Purché veda il mistero che va oltre il visibile e il dicibile. E abbia musica dentro di se, sia incinta di una musica che nasce. La poesia senza musica mi annoia a morte».

Qual è a suo avviso lo ‘stato di salute’ della ‘giovane’ poesia contemporanea?

«Lo stato di salute della poesia giovane in Italia è mediamente di buon livello, ma è quel mediamente che mi rattrista. Non basta avere consapevolezza dei propri mezzi e aver letto il Novecento. Bisogna anche accettare la poesia come una sfida, una lotta, un destino. Un giovane che ama la poesia deve dedicarsi ad essa gettandosi a capofitto in questo amore. Non deve fare prevalere l’ego. La carriera. La vanità. Deve dare senso alla poesia e amarla di amore assoluto. Incarnarla nella sua vita. Io l’ho fatto a trent’anni, è rovinoso e bellissimo. Ci sono buoni poeti giovani, o giovanissimi, alcuni che amo sono in Sicilia, altri in Liguria, sarà che sono i due poli della mia immaginazione, che Sicilia e Liguria sono la misura dicotomica della mia nascita e della mia mitologia personale».

La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?

«La parola poetica non può che avere il linguaggio del proprio tempo, ma non quello della moda e di moda, non i gerghi dominanti. La parola poetica non può risolversi in pura comunicazione, neppure nell’era dei social. La poesia in verità inventa il linguaggio vero, autentico, profondo della propria epoca. Così fa l’arte, il grande romanzo, il grande cinema. Negli anni 70 del secolo scorso nessuno parlava più di natura. Io l’ho fatto e sembrava un gesto regressivo. Oggi tutti parlano di natura. I giovani soprattutto. Io non posso che esserne contento. Del resto, anch’io ero giovane negli anni 70».

Per concludere, la invito a scegliere una sua poesia: la pubblicheremo insieme alla sua splendida “Chiedi a un mandorlo” per salutare i nostri lettori.

«La prego, la scelga lei, se le è piaciuta “Chiedi a un mandorlo”, mi fido. E un caro saluto fraterno a tutti i lettori».

 

Chiedi a un mandorlo

Chiedi a un mandorlo a marzo
al rosa titubante del pescheto.
Chiedi a una nuvola dell’alba.
Chiedi a un torrente che irrompe nel greto,
Chiedilo a tutti i fichi degli orti
quando i rami contorti e spogli
cominciano a formicolare
di germogli
chiedi a loro.
Saprai cos’é l’impazienza
che ti attanaglia e ti sgomina
quando tu desideri,corpo.
Saprai la tua innocenza e la tua forza.
Saprai dell’amore più verità
che leggendo tutti i libri scritti
dall’inizio dei tempi.
Non fidarti dei filosofi
né di Platone né di Eraclito
Non interrogare i profeti
i sapienti,i sacerdoti
su cosa è la tua brama,
non saprebbero dirtelo.
Chiedi a un mandorlo.
Guarda un mandorlo.

 

 

Il mio demone è un senzatetto

Il mio demone è un senzatetto
senza paura della tempesta
uno che abita la battigia
uno che abita la frontiera
uno che sulla sabbia nera
corre e fa capriole
aspettando che torni il sole.

Onde e vento lo prendono
schiume, salino, nuvole
e lui continua a correre
tra nebbie che disorientano
e fulmini che scardinano.

Se io con lui mi lamento
che sono un bronco gettato
sulla riva dalla marea
orme di cani e gabbiani
un groppo di nudi rami,
ride, mia vita, e dice:
“Tu sei quello che ami”. 

 

 

 

Oggi, alle ore 18.00, a “La Feltrinelli Point” di Messina, Giuseppe Conte, sempre nell’ambito di “Naxoslegge” presenterà “I senza cuore”, edito da Giunti. Coordinate da Fulvia Toscano, interverranno Claudia Ercoli e Cristina Marra. 
Anno Domini 1116, la Grifona salpa dal porto di Genova con 192 anime a bordo: la rotta è verso il burrascoso Atlantico e le brume della Cornovaglia bretone, dove un monastero pare custodisca un misterioso manoscritto. Il suo comandante Guglielmo il Malo, della famiglia degli Embriaci e trionfatore alla Prima Crociata, è segretamente in cerca della verità sul Vaso di smeraldo, portato a Genova come bottino di guerra e dono della Regina di Saba a Salomone, presente sulla tavola dell’Ultima Cena di Nostro Signore. È davvero l’originale? O è un clamoroso falso? Ma Guglielmo, l’ingegnoso costruttore di macchine da guerra, è subito costretto a calarsi nei panni di un riluttante detective, per indagare col fedele, sveglio scrivano Oberto da Noli, narratore di tutta la storia, sui delitti di un efferato serial killer che semina il terrore a bordo della sua galea nelle notti di luna nuova: tre ufficiali sono stati uccisi uno dopo l’altro e lasciati con il petto squarciato e senza cuore. Fra dramma e leggenda, bonacce e tempeste, scarsità di viveri e malattie che riducono l’equipaggio a 109 anime, fra incontri con pirati e Vichinghi ma anche ammutinamenti, Giuseppe Conte scrive un romanzo corale, ricco di suspense e colpi di scena: protagoniste sono le crociate e le conquiste della sua grande Genova, ma anche la pace e la nonviolenza che vedono Conte in persona prestare un po’ della sua voce al mastro d’ascia sufi Yusuf Abdel Rahim, alias Giuseppe Pietrabruna. Un thriller storico mozzafiato e anche la rocambolesca avventura di un’emancipazione femminile: quella di Giannetta Centurione, la giovane cavallerizza e arciera che si ribella alla volontà del padre e della matrigna e che si staglia infine come la polena di una galea.

La versione ridotta di questo articolo/intervista, a cura di Grazia Calanna, è stata pubblicata sulla pagina Cultura del quotidiano “La Sicilia” in data 24.09.2019

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