copertinana dotti 1Il gioco non è più un’insula felice, quella oasi della gioia alla quale aspirare per accedere a un “mistero”.  L’uomo, oggi, non è, come voleva Hugo Rahner, incapace di giocare (Cfr. Hugo Rahner, L’homo ludens, Paideia, Brescia 2011). Ma al tempo stesso non è nemmeno più capace di giocare. È in questa doppia impossibilità, di giocare e di non giocare, che al premoderno homo ludens ancora parzialmente attore, oltre che agito, nella scelta tra gioco e non-gioco, tra serietà del lavoro e svago del non-lavoro, è subentrato l’homo illudens, idealtipo della finanza tardo-capitalistica. Un uomo completamente avvinto nel gioco, più che dal gioco. Sedotto dalla somma zero dei suoi desideri. In-ludo, etimologicamente, può essere inteso come “essere nel gioco”, subirne il sortilegio (il legame della sorte) senza averne coscienza, entrare (illusio) nel gioco (ludo), appunto. Davanti a un “gioco” che si presenta sempre più nella forma del demone che genera dipendenza è possibile non giocare? Davanti al gioco vero, quello che esige una scommessa costitutiva tra senso e non senso (alla Pascal), è ancora possibile giocare? I due testi, Slot city e Il calcolo dei dadi, sono dedicati rispettivamente a questa doppia impossibilità e ai luoghi simbolici in cui si produce un positivo cortocircuito tra caso e caso, tra rischio e azzardo, tra gioco e non gioco. Con una certezza: solo nella poesia, nell’arte in genere, nella letteratura, nella musica, nel “regno dell’inutile” ci è dato rilanciare all’infinito i nostri dadi e capire. Proprio quel continuo rilanciarli senza calcoli è, d’altronde, il dato costitutivo di quell’hasard di cui già parlava Mallarmé nel suo celebre e per molti versi ancora inascoltato poema. In una delle sue Fleurs du mal, Le Jeu, Charles Baudelaire descrive il giocatore come l’uomo che corre con innato «ferveur» verso un abisso che continuamente gli si apre davanti. Nel gioco, prosegue, scossi da «febbre infernale» si intravvedono «sopra tappeti verdi, occhi che non hanno labbra / labbra senza colore, mascelle senza denti» animati però da una passione ferma («passion tenace») e dalla disperata vitalità di chi sa che il suo gioco non può finire mai. Questo non poter finire, osservava già Walter Benjamin, mette fuori ruolo l’esperienza. Il fatto di cominciare sempre da zero, sempre di nuovo, è infatti l’idea regolativa del gioco così come dell’operaio-massa: allo scatto della macchina sulla catena di montaggio, corrisponde il coup del gioco d’azzardo. Sia il lavoro dell’operaio, che il gioco del giocatore sono cavi, liberi da ogni contenuto.copertina dotti 2 È molto significativo che la lancetta dei secondi figuri in Baudelaire come il vero partner del giocatore: «Souviens-toi que le Temps est un joueur avide». Al tavolo da gioco il tempo rompe gli indugi, si ferma o si accelera, ma non rispecchia mai quello delle lancette che procedono da sinistra a destra.In un qualsiasi casinò non si troveranno orologi, ma in una sala giochi così come su una banale scrivania se ne troveranno in eccesso. Eppure, saturato o svuotato di sé, il tempo scorre. Verso dove? Ma scorre davvero o, come i dadi su un tavoliere, anche il tempo “cade”?  Il termine dado deriva dal latino datum, gettato, lanciato; parimenti, caso deriva da casus, ossia cadere. Il dado è ciò che cade, ma una linea arrischiata e sottile lo approssima a un’altra parola dal doppio taglio: debito. Come un debito, infatti, scade. Anche quando dà l’illusione di non scadere mai. I termini francesi chance (fortuna, occasione, più banalmente: opportunità) e échéance (scadenza, termine), derivano entrambi dal latino cadentia. L’antica grafia francese caanche lo avvicina a excadere, da cui cadere, scadere, ma anche eccedere, creando asimmetrie tra la percezione di potenza del giocatore e la sua impotente presa sul reale. Nel XIX secolo fu l’imprenditore François Blanc (1806-1877), progettista dei più importanti casinò europei, tra cui quello di Montecarlo, soprannominato il mago di Amburgo, a mettere d’accordo tutti. Fu lui infatti a intuire che togliendo gli orologi dalle sale da gioco lo spazio/tempo del gioco si sarebbe dilatato in una sospensione irreale, alterando o invertendo i meccanismi di azione e reazione. Il tempo diventava così un’estensione ludica del giocatore e delle sue endorfine e dopamine, direttamente collegate al tavolo verde o alla slot-machine, all’epoca ancora azionata da circuiti idraulici o meccanici, mentre ora è mossa unicamente da chips. È in questo snodo simbolico che sembra così prendere forma la profezia di Schopenhauer che nel gioco d’azzardo in ambiente moderno vedeva una «bancarotta del pensiero». Eppure qualche margine di libertà è ancora concesso ed è ancora possibile. Proprio là dove la nostra presa sulle cose sembra venir meno, la realtà può presentarsi come dato in pura perdita: un coup de dés jamais n’abolira le hasard.

 

 

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