carla saracino

Parola d’Autore

Non so se scrivere sia in effetti un privilegio. Credo che il vero privilegio resti il ricordare a se stessi di formare la propria esistenza in una lucida sintesi che non escluda niente dell’orizzonte umano ma che pure ne escluda tutto vivamente. Nel senso che essere nel mondo significa anche sapersene, a un certo momento, distaccare, isolando se stessi nella più amorevole delle solitudini. Senza questa forma di “disimpegno”, la vita – io credo – rischia di apparirci continuamente distorta e quindi non comunicabile attraverso i versi. Scrivere allora diventa una testimonianza di lealtà che non ammette falsificazioni e infatti le più grandi poesie sono luoghi abitati dalla fedeltà e da un tempo incalcolabile. La storia del tempo, in poesia, è la storia di un’irreversibile euforia. Essere nati, essere presenti, parlare, dettarsi dentro eppure constatarsi mortali: questo urto all’apparenza macchinoso è quanto di più libero possa risiedere esattamente nelle profondità dell’immaginazione ed è quanto di più potente possa dissodarle. Io scrivo per corrispondere con un carteggio invisibile che tenga alta la forma della mia, personalissima, euforia. A questo carteggio rispondono voci antiche, classiche, modellate sul calco di un congedo perenne. In questo congedo c’è il merito di una forza che è imminente alla morte e quindi mai anacronistica (solo la contemporaneità in cui vivo è, secondo me, veramente anacronistica). Quando ho iniziato a scrivere, verso i diciassette anni, è stato come nascere una seconda volta. Prima di allora, non ero ancora io. O ero io, ma nella casualità di tutte le voci che si affastellavano dentro di me, come una ressa di risposte che non cercano domande o domande che non trovano risposta.  Ci sono voluti il rigore e la tenacia della poesia e della letteratura in generale per marchiare il luogo e il tempo del mio essere in vita in un’unica voce. Ci è voluta l’intesa esatta di un movimento dentro le parole perché queste potessero dare realtà all’invisibile di tutte le mie ipotesi sulle cose. Senza quel movimento, che ho voluto cercare anche nella raccolta Il chiarore (LietoColle), niente sarebbe potuto essere e quel che sentivo solo come potenziale sarebbe rimasto tale. Sono fermamente convinta che tutto vada sempre esplorato, che la ricerca non debba mai fermarsi e che il futuro risieda nello scavo ostinato dentro la dimensione migliore: la profondità, dove ogni radice è riconoscimento della radice che l’ha preceduta. Solo in questo incontro di assonanze avventurose si può sperare di diventare dei veri rivoluzionari del linguaggio e artefici di un comune codice umano. Bisognerebbe essere permissivi fin quasi all’imbarazzo, dirsi che tutto può o potrà essere, sgombrare il campo da qualsiasi pregiudizio, dimenticare la propria eco per stupirsi di ritrovarla, molto tempo dopo, trasformata. 

copertina saracino

 

 

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