“I giorni del corona” di Sebastiano Burgaretta: “poesia come strumento di comprensione del presente”.

I giorni del corona di Sebastiano Burgaretta, poemetto pubblicato per le preziosi edizioni Salarchi Immagini nel 2021, in piena seconda ondata di Sars-Cov-2, è opera dalla misura classica.

Opera, quindi, inevitabilmente inattuale, nonostante l’attualità drammatica del tema. Inattuale, parafrasando il Nietzsche delle Considerazioni Inattuali, non perché sia opera fuori dal tempo, sorpassata, bensì perché, facendo resistenza al tempo presente, agisce su di esso a favore di un tempo venturo. Inattuale, quindi, in virtù di una peculiare forza antagonistica in cui risiede la dimensione stessa della sua verità.

Buona parte della poesia contemporanea, semplificando certo, per decenni si è attestata su un grado zero della parola, minima e minimalista, attenta a scartare la parola usurata per i suoi utilizzi ideologici, tesa ad aderire, in una forma sempre più impersonale, ai minimi smottamenti del reale per recuperare capacità di significazione, mostrandosi così per lo più esente dal rischio della lingua come velario delle cose ma molto più esposta al rischio opposto delle cose come sudario della lingua. Dopo la stagione degli anni ’70 e ’80, questa poesia-mimesi tanto realistica quanto sperimentale, esonerata spesso dal vincolo di senso o altrimenti volta a recuperarlo non attraverso il coraggio di una referenzialità raggiunta nella sintesi tra forma e contenuto ma attraverso il gesto, per mezzo di uno slancio puramente performativo, rischia oggi di ridursi a comodo manierismo.

Siamo schiacciati, da una parte, da una letteratura di consumo, di puro intrattenimento (che emargina la poesia con vanto, peraltro, della stessa) e dall’altra da uno sperimentalismo effimero, un modo della poesia di mimare la complessità che non conquista la forza della “visione” e resta semplice immagine di superficie. Così la poesia affonda in quel mare contemporaneo di detriti, di scarti, di resti, di cui invece dovrebbe essere possibile risposta: resta rumore di fondo – proprio ciò da cui dovrebbe sottrarci.

Burgaretta, nella sua classicità inattuale, innova: ritornare ai padri generazionali, continuare a riconoscerli, vuol dire concedersi la possibilità di ritrovare una poesia del senso, una poesia consapevolmente portatrice di visioni, che non abdica di fronte all’esercizio di una funzione sociale e civile. Non abbiamo bisogno di una poesia – sembra dirci Burgaretta – che sia piatta mimesi della complessità, che ne ripeta il meccanismo e lo schema, abbiamo bisogno di una chiave di essa.

La poesia di Burgaretta possiede una misura classica innanzitutto perché non ha paura di mettere a tema gli universali, a partire dall’Uomo, considerato nell’unico modo che consente agli universali di non sfumare in impalpabile astrazione, ovvero tematizzandone la dimensione politica, temporale, civile, legando dunque insieme universale e particolare, piano dell’assoluto e contingenza, illuminando il particolare grazie all’universale e facendo parlare l’universale attraverso il particolare.

Lontano tanto da ogni vieto romanticismo, inteso come categoria dello spirito, col suo rifiuto della realtà quanto da un appiattimento sul concreto, Burgaretta ridetermina la posta in gioco per la poesia in questo frangente storico provando a recuperare una visione integrale delle cose entro cui ripensare l’uomo. In filigrana Dante, Leopardi, Pasolini, ma anche Consolo e Sciascia, per una poesia dunque inattuale ma del presente, che non indietreggia di fronte alla realtà, piuttosto se ne fa carico, la indaga, scava dentro di essa. Una poesia vicina al proprio referente, ma percorsa da slanci, con una sua altezza costruita anche per mezzo di un sapiente plurilinguismo.

Questo sperimentalismo che si richiama alla tradizione dantesca senza rifuggire dal lirismo fa compiere alla poesia di Burgaretta un doppio movimento simultaneo che emerge soprattutto al confronto con lo sperimentalismo dei poeti degli anni ’60 e ’70: se in questo caso sperimentare era il modo con cui una generazione tentava di sabotare-destrutturare il linguaggio corrente borghese della manipolazione tecnica e del profitto, se dunque la pars destruens era prevalente in quell’uso, il mistilinguismo di Burgaretta (latino, greco, dialetto siciliano, spagnolo insieme) conferisce alla sua lingua contemporaneamente una piega oracolare e domestica, lirica e antilirica insieme – un’oralità non dannunziana, non declamatoria, riconducibile piuttosto a una saggezza intima custode del tempo, possente e minuta allo stesso tempo, che si erge contro la superbia dell’uomo, per svestirlo della sua presunzione, per liberarlo dall’arroganza illusa delle magnifiche sorti e progressive (in esergo all’opera non a caso il Leopardi de La ginestra).

La pandemia da coronavirus, per il poeta, è un sonoro campanello d’allarme non solo sul piano della salute fisica, sociale ed economica delle nostre società ma anche, più radicalmente, su quello antropologico. L’uomo contemporaneo – ecco un altro tema tipicamente classico – ha perso la misura: nel rapporto con sé, con l’altro, con la natura. L’uomo di oggi non è più capace del limite (péras), ed è questa l’origine del suo egoismo, del suo sfrenato individualismo, del passaggio senza soluzione di continuità dalla “grande abbuffata” (v. 23) all’“incuria umana” (v. 1531) “per la paura, che si ha, di vivere/ aprendo tutto alla condivisione” (vv. 260-261). I riferimenti letterari di Burgaretta si legano inscindibilmente a una sintonia umana, come per Jemenez Lozano, poeta spagnolo di cui Burgaretta compiange la recente morte e di cui sottolinea il richiamo fondamentale a una dimensione capace di superare l’asfissia dell’io; d’altra parte, proprio la pandemia ha reso evidente ciò che nel poemetto è reso efficacemente con l’immagine della barca, che tratteggia sullo sfondo anche il tema dei migranti, questione cara al poeta e già affrontata in Verbumcaru (Algra Editore, 2020): se vi è salvezza, è solo collettiva, non è possibile salvarsi da soli (vv. 262-267: “L’immagine abusata della barca,/ in cui si è tutti sotto la tempesta,/ stenta ancora a convincere chi crede/ d’essere al sicuro per sé solo./ Quando a picco cola tra i flutti,/ il legno al fondo porta con sé tutti”). 

Burgaretta, nell’imbastire la propria poesia, non teme di ricorrere a orizzonti di senso che il post-moderno ha fortemente indebolito e svalutato, come la religione. L’immanenza non basta a se stessa, il linguaggio poetico diviene allora apertura verso il trascendente, si presta a riportare la realtà in un alveo di senso non rassicurante né consolatorio ma che implica l’impegno alla relazione, l’assunzione di una responsabilità fondamentale verso l’Altro. La religione di Burgaretta è innanzitutto una religione del cuore, dell’umiltà, dell’ascolto; una religione non di ritualità ed osservanza esteriori ma di dono e di raccoglimento interiore, sull’esempio più volte richiamato di Juan de la Cruz.

Il poeta, ricordando Jemenez Lozano, si schiera sul suo esempio dalla parte degli umili e degli offesi (vv. 55-56: “Il silenzio di umili e offesi/ è il solo che parla al Dio nascosto.”) alludendo a quel deus absconditus di Pascal e dei tanti esponenti della teologia negativa contro tutte le arroganze della ragione in tema di fede e di trascendenza.

La proposta poetica di Burgaretta si nutre di pensiero e si àncora a una dimensione di senso forte: la poesia è consapevolmente assunta come strumento di comprensione e di elaborazione del presente. È poesia di pensiero, però né concettosa né idealistica per un uso calibratissimo della lingua, della metrica e della retorica, il concetto infatti è sempre materico, tangibile, oggettuale.

Poesia dunque, per Burgaretta, è esercizio di lucidità, è atto di coraggio. Essa rinunzia alle facili illusioni per guardare alla condizione dell’uomo e alla realtà con occhio crudo, sincero, senza infingimenti.

Prima che dal punto di vista formale dove pur si assiste alla preferenza per forme metriche ricavate dalla tradizione e liberamente giustapposte e rimodellate, la poesia di Burgaretta ha una misura classica perché propone un discorso unitario – una visione – riconoscibile nelle sue premesse di senso e di valore. In un’epoca di relativismo imperante e di persistente pensiero debole una simile posizione richiede molto coraggio, una sicurezza nei propri mezzi non indifferente e un atteggiamento etico nei confronti della scrittura e di quello che si ritiene debba essere la sua funzione. Questa ispirazione etica informa di sé profondamente I giorni del corona, senza alcun moralismo, ma con la coscienza salda della funzione sociale e civile della poesia.

Una simile poesia per vocazione impegna il poeta e la collettività a una relazione, a uno scambio: nasce dentro a una comunità per la comunità. Relazione” che coinvolge il poeta come soggetto storico, nei suoi movimenti reali, incarnazione vivente di una precisa costellazione di valori e riferimenti culturali che gli danno una collocazione, un posizionamento riconoscibile, un ruolo e una funzione peculiari. 

Nasce in questa cornice la sua attenzione, come detto, per gli umili e per gli offesi, per i “figli di nessuno” (v. 1016), mai in astratto, come nel caso degli immigrati della tendopoli di Cassibile, la cui vicenda “nel sonno di chi ha le leve in mano” (v. 1039) è spunto per una forte denuncia sociale nei confronti della politica. Se “sommersa è la voce degli onesti” (v. 1717), il poeta parla per loro.

Oltre alla politica, il poeta rivolge la sua critica aspra anche ai media e alla stampa che alimentano “il fuoco del disagio” (v. 278) o si spengono in una “vuota retorica” (v. 604), in particolare nel mirino vi sono i social network: “La rete è il reticolo perfetto/ per tele da tessere all’incanto./ Tutto vi passa dentro a buon mercato” (vv. 363-365).

Il poeta conseguentemente emerge con un suo ruolo specifico, è la coscienza critica di un’epoca, non certamente al modo del poeta vate bensì nelle forme concesse da una fase storica di radicale marginalizzazione sociale e culturale della poesia ovvero come voce solitaria che utilizza proprio la marginalità della poesia per veicolare visioni (messaggi, valori) che entrano in attrito con la realtà data, riaffermando così per la poesia il suo valore di mobilitazione del reale, non a dispetto della sua marginalità ma in forza di essa.

Questa concezione della poesia contribuisce a spiegare il doppio livello del poemetto, quello personale – la storia piccola, la microstoria, il “diario in versi” segnala giustamente nell’introduzione Giuseppe Traina – e insieme, intrecciato a esso, quello collettivo, generale, la storia grande. Si procede per tutto il poemetto dall’universale al particolare, dall’astratto al concreto, dal tutto alla parte, dal grande al piccolo, e viceversa, in un reciproco inverarsi dei due piani, non solo per ragioni compositive o architettoniche, peraltro perfettamente ponderate, piuttosto per evidenziare la posizione peculiare del poeta, figura né eccezionale o superiore che si collochi al di sopra della realtà né consolatoria che si ritiri fuori dalla realtà nell’esercizio di sterili estetismi; il poeta bensì, come indica ancora la lezione dantesca, è ben saldo nella realtà, si fa consapevolmente e faticosamente portavoce di un messaggio che riguarda la collettività, che è indirizzato a essa. Non è dunque solo un caso che ogni libro della vasta produzione poetica di Burgaretta non sia mai una semplice raccolta di poesie disgiunte ma abbia sempre un tema centrale, aggregatore, un nucleo tematico riconoscibile intorno al quale viene sviluppato un discorso unitario e propositivo.

Rispetto alle altre opere di Burgaretta, in i giorni del corona il dettato si fa più piano, più comunicativo, perché l’urgenza di dire sembra molto forte.

Davanti all’umanità sempre più perduta, davanti alla vita intera, tutta, entrata in quarantena, con la regolarità della metrica che contribuisce a questo senso di immobilità, di fissità scolpita, il poeta avverte l’urgenza di prospettare risposte possibili, non consolatorie, ma impegnative e contrarie a quello che appare essere lo spirito del tempo.

In uno stato di amnesia generale (v. 1584: “e la gente è dimentica di tutto”) a salvare è la memoria, “vera virtù capace di dar vita” (v. 330) che agisce sui “cuori rattrappiti” (v. 578) perché, “salvifica empatia” (v. 1799), ci ricorda che siamo tutti accomunati da una stessa umanità che si esprime in un’infinità di forme, perché ci connette l’uno all’altro, e ogni generazione a tutte le altre nel tempo lungo della storia.

A salvare è la relazione, lo scambio umano, il dono d’amicizia e d’amore (come è espresso ai vv. 953-958 col rafforzamento dell’epanalessi: “Un abbraccio desidero, un abbraccio,/ carne viva stringere al mio cuore,/ sentire e dar calore dentro i petti,/ captare e intensa mantenere/ la forza conquidente della vita,/ che vuole e reclama questo dono.”) indisgiungibile dalla dimensione del corpo secondo la concezione, ancora una volta classica, del “connubio/ tra mente e braccia” (vv. 651-652); salva parlarsi con affetto, il rito classico e sempre più raro della conversazione fisica e non frettolosa, trovarsi, ritrovarsi: “Confortevole questa chiacchierata/ tra storica e poeta vecchi amici,/ viva la vita bella e creativa” (vv. 1344-1346); “[…] conversazione/ conviviale fraterna celebrata” (vv. 1477-1478).

I versi 1480-1485 racchiudono, non la ricetta, bensì certamente l’orizzonte esistenziale e valoriale del poeta, rimedio di un tempo sempre più arido e brutale, offerto al lettore non con l’assertività di una tesi bensì con la sicurezza intima e umile di chi ne conosce la forza solo perché ne fa continuamente esperienza: “sete di essenzialità”, “coralità” e “condivisione”, reciproco “riconoscersi”, “intimo silenzio”, “gioia” – elementi, tutti, che danno “[…] acqua limpida alla vita/ nel campo antico dell’incompiutezza”, come è affermato in chiusura del poemetto. D’altra parte, ci ricorda Cepollaro, “la poesia sta in piedi se c’è verità, se se ne è fatta esperienza”.

A salvare è anche l’arte, la scrittura, la poesia, concepita alla luce dell’ideale classico della corrispondenza di Bellezza, Bontà e Verità (vv. 285-288: “Le ciarle consuete a dare forza/ tra il bello, il buono, e il vero/ che dà la poesia a chi ascolta/ le voci interne della libertà”), spazio di ascolto dell’io interiore, di quel luogo ove è possibile, unicamente, crescere nella libertà e conseguentemente accrescerla e custodirla anche in società: “Le ali soltanto della poesia/ in alto l’uomo levano e lontano” (vv. 1550-1551).

La tensione morale e civile del poemetto è rivelata inoltre dalle chiare prese di posizione del poeta. Dalla parte di umili, offesi, dei figli di nessuno, il poeta, dall’altro lato, è apertamente critico verso i no vax, i negazionisti, i riduzionisti, figure di un’umanità sbandata, “quanta miseria disumana/ nel cieco accanimento dei no vax/ e dopo ancora a gridare no green pass!” (vv. 1789-1790).

Si può qui riscontrare una caratteristica fondamentale che attraversa tutto il poemetto, il suo procedere per opposizioni, secondo una logica della polarizzazione che concede a ogni tesi la sua antitesi e le giustappone con effetti di grande forza rappresentativa.

Ciò vale anche per i tantissimi personaggi da cui, non diversamente dalla Commedia dantesca, è popolato il poemetto, a molti dei quali Burgaretta assegna un epiteto, come nell’epica classica, affiancandoli l’uno all’altro, quasi in un faccia a faccia molto efficace dal punto di vista compositivo e narrativo.

Al papa “vecchio claudicante” (v. 134), colto in tutta la sua infinità umanità, si oppongono le avide e arroganti gerarchie della chiesa, i preti “divi della televisione” (v. 910) nel “loro narcisismo” (v. 913), gli “alti prelati/ che svendono la fede al baratto” (vv. 1000-1001), i “clerici corrosi dallo zelo/ teologi dei guanti che cassano/ tradiscono, umiliano, uccidono/ l’essenza vera della comunione” (vv. 1449-1452); a Ursula Von der Leyen, “il megafono dei ricchi” (v. 319) si oppone Edi Rama, primo ministro albanese che ha aperto le porte dell’Albania ai profughi afgani; a Conte, “povero Cireneo” (v. 435) e alla sua rispettosa “pochette” (v. 439) si oppone, con straniante gioco linguistico che attinge al prosaico, Salvini con le sua apparizioni al “Papeete” (v. 441); la stessa opposizione anche tra i virologi, a Pregliasco “minacciato” (v. 1516) e “mite” (v. 1520) si oppone Zangrilli che afferma che il virus è clinicamente morto (vv. 1553-1554).

Non solo grandi e noti personaggi ma, in quell’intreccio tra storia grande e storia piccola, anche personaggi locali come Rosanna, della redazione della rivista locale, che “riesce a dare spago a tutti/ i quattro vecchi di questo concerto/ disarmonico eppur così vitale” (vv. 778-780) o “la mia amica di Palermo,/ vegana, zen e tutta orientale,/ da sempre omeopatadipendente” (vv. 1556-1558) di cui il poeta si serve per criticare certe fumisterie spirituali; vivi o di cui si compiange la morte come “Alessandro mite” che muore in “solitudine suprema” (vv. 1462-1463) o Umberto Migliorisi, poeta dialettale ragusano (vv. 1044-1052).

Attraverso i personaggi citati Burgaretta non manca di sferzare la politica, come nel caso del sindaco di Palermo Orlando, “da tempo paladino senza spada” (v. 1244) o in riferimento all’ex generale dei carabinieri Pappalardo, “pappalardi in nera confusione” (v. 1686) dove la paronomasia lavora in senso beffardamente sarcastico.

Parallelamente alla presenza di numerosi personaggi, il poemetto è ricco di scene tratte dalla realtà, dalla cronaca di quel periodo storico, vicende grandi e minime che non servono il semplice resoconto evenemenziale bensì costituiscono l’occasione per proporre riflessioni.

Dalle bare di Bergamo alla preghiera solitaria del papa in piazza San Pietro; dai canti dei balconi di Napoli ai balordi di Pozzuoli che scendono in piazza a far festa contro i divieti imposti dalle legge; dalle lunghe file di persone fuori dai centri commerciali, “[…] manichini/ immobili, fissi e diffidenti,/ con vane mascherine d’ordinanza” (vv. 447-449) “spaventapasseri straniti e veri” (v. 784), alle trasmissioni in streaming per le funzioni della Settimana Santa ad Avola o alle lezioni in DaD (vv. 625-645); dal proliferare dei cani domestici per garantirsi qualche ora fuori di casa (vv. 503-520) agli altri sotterfugi per evitare le restrizioni, sul registro del comico e dell’esilarante (vv. 832-839: “E l’altro che così spiega l’andazzo,/ adducendo motivi di salute,/ quando vien fermato dalla polizia:/ sto solo andando dalla mia compagna,/ per far l’amore dopo tanto tempo;/ ne va, infatti, della mia salute,/ sto male e sto impazzendo ormai da giorni,/ in tilt i miei nervi sono andati.”); dai fiorai che donano i fiori invenduti ai cimiteri locali (vv. 945-952) al suicidio di un piccolo imprenditore napoletano (vv. 1191-1200): ognuna di queste vicende è motivo, per il poeta, di considerazioni sull’uomo.

La solitudine innanzitutto, nella morte, tanto più durante la pandemia in cui, privata anche della sua importante dimensione rituale (vv. 1178-1179), la morte è solo macabra e disumana contabilità; ma la solitudine, anche, nel suo valore positivo e vitale (vv. 148-150) come accordo della vita interiore; la diffidenza, l’ansia e la distanza che si diffondono tra gli uomini (v. 113-119) la cui umanità si riduce a “cibo e medicine” (v. 122). La pandemia svela però anche il superfluo delle nostre vite: “Quante necessità che sono indotte/ appaiono nella loro nudità” (vv.127-128), “Come cade tutto il sovrastrutturale davanti all’emergenza […]/ […] quel che serve/ rispetto all’usato è poca cosa.” (vv. 237-240). Al poeta soprattutto preme sottolineare il carattere illusorio dell’attesa di “conversione” (v. 453 e sgg.) quasi automatica che ci si aspetta dalla pandemia: “tutti più buoni e tutti riflessivi/ tutti più saggi e tutti rinsaviti” (vv. 461-462). Il poeta, da buon demistificatore, non crede in questa conversione meccanica quasi miracolosa, in cui non si lascia facilmente intendere se il silenzio, fuori, sia “obbedienza spirituale” (v. 602) o “semplice prodotto della legge” (603), piuttosto “Il bello viene adesso chiaramente,/ essendo ormai la singola persona/ chiamata a fare una rivoluzione/ dentro se stessa e nella società/ con atti responsabili e seri” (vv. 1132-1136): nessuna conversione spontanea, quindi, ma la necessità di una “rivoluzione” lenta e faticosa, che non modifichi solo le apparenze, “perversa medicina/ dei nipoti dei tanti gattopardi/ dei tanti onnipresenti tancredini” (vv. 1577-1579), sfociando semplicemente in esteriori e umorali ribaltamenti d’opinione, come verso i medici oggi “eroi degli ospedali” (v. 610) e ieri “[…] sbertucciati/ perché venduti al dio denaro” (vv. 615-616).

La “sindrome buia della capanna” (v. 1390) rischia di far perdere quanto è di conforto per il poeta: il rito quotidiano del giornale all’edicola di riferimento, l’abitudine del caffè con gli amici, la frequentazione delle librerie. Rischia cioè di perdersi quello stare nella comunità – l’incontro, l’umanità della relazione di prossimità – che per Burgaretta costituisce, ancora una volta con richiamo alla classicità, la destinazione propria di ogni vita compiuta.

E questo vale anche per le traiettorie dei poeti, soprattutto in Sicilia: la poesia siciliana non rende del tutto riconoscibili i propri poeti e non riesce a collocarli dove meriterebbero di stare perché è frammentata, divisa, incapace di ritrovarsi. Nella società monadica e iper-individualistica di oggi anche la poesia può recuperare una capacità di visione – e, se non un ruolo, almeno una sua riconoscibilità – solo riscoprendo un certo modo di essere comunità.

I giorni (gli anni) del coronavirus, in un intreccio mirabile tra vita e pensiero, diventano in quest’opera di Burgaretta ricchissima materia poetica, per una poesia, classica e perciò tanto più attuale, che ci ricorda e ci indica quale può essere ancora oggi il senso di fare poesia. 

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