I NOVANT’ANNI DI GIUSEPPE ROSATO

L’ultima raccolta poetica in lingua di Giuseppe Rosato, La bellezza del mondo (2019-2021), edita dal riminese Raffaelli (2021), mi giunge con una dedica dell’autore che riporta una frase attribuita a Benedetto Croce: «Perché la morte non mi colga inerte». Monito questo che richiama una delle lettere senili di Petrarca a Padre Ludovico Marsili: «Imprendesti sul mattino il viaggio: fa’ che non ti colga sul mezzodì la pigrizia. Non imitare quegli inerti viandanti che, vedendo alto il sole nel cielo, pensan che lungo è il giorno, e assisi all’ombra si riposano e si addormentano: poi troppo tardi veggon che annotta, e inutilmente si pentono del tempo perduto. […] Rammenta Marco Porcio Catone, che già maturo degli anni dette opera alle lettere latine, e fatto già vecchio pose studio alle greche. […] Platone, viaggiato già quasi intero il mondo, nel giorno stesso della sua morte, secondo che dice Valerio, teneva i Mimi di Sefrone sotto il capezzale, o a dir di Cicerone moriva scrivendo […]». Rosato arriva ai novant’anni (compiuti questo 14 maggio) con mente alacre e spirito indefesso, e con lo scrupolo di non negare al lettore nuovi «giochi di sillaba e di rima» (per dirla, affettuosamente, con Gozzano). Ma il gioco, per i bambini come per gli artisti, è una cosa seria…

     Il poeta lancianese costruisce, in questa Bellezza del mondo, una serie di “appunti diaristici”, di contemplazioni che trascendono il quotidiano, da cui pure attinge lo slancio più intimo e genuino della scrittura, a testimonianza di un dialogo con l’eterno di cui sono messaggeri, e al contempo interlocutori, il cielo scrutato dietro i vetri, l’alto sole che «sgombra ogni ombra residua», la neve che «protegge ogni bene», il volo del falco, del nibbio o del «mite passero». È proprio a «vaghi uccelli schizzati di colore» ch’è affidato il recupero della Bellezza, posta al riparo dalla Morte in «sotterranei passaggi dove / memorie irrevocate la trattengono»; a loro, «rondini al sole chiare bruni passeri», spetta di ricondurla, salva nella sua forma e nel suo valore, in «più fidate sponde / del bellissimo cielo». Questa dimestichezza con l’oltretempo e l’oltremondo (termini cari al Montale della Bufera) caratterizza profondamente l’ultimo ciclo della produzione rosatiana. Tra il mite e l’ironico, tra il dolente e il risolutivo, il poeta ritrova in ogni spunto di vita residua l’immagine della donna amata ed ogni cosa trasfigura in nome della sua assenza; persino il mare «che dicevamo nostro / e non per lasciti di vanagloria», persino «il mare grande, l’innocente mare», non resta che un «disperato sprofondo». Capovolgendo il pessimismo montaliano, «Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina indifferenza», nella poesia che apre la raccolta Rosato rivela la scoperta di un altro “bene”: «Uscendo d’ignoranza, come ali / sortite da un buio guscio / noi per prodigio conoscemmo / liberati nel volo in quei giorni / la bellezza del mondo». Una volta messa da parte l’ignoranza del mondo, in nome di un amore totalizzante («Avevamo scordato in quei giorni / tutto l’altro…»), ecco che l’autore si rivolge alla vita e, perché insieme alla creatura amata, ne riconosce il prodigio.

     Dopo questa raccolta me ne giunge un’altra, scritta in dialetto lancianese, Tra vèje e sonne, edita da Carabba (2021). Se l’efficacia poetica di Rosato è indipendente dalla scelta di scrivere in lingua o in vernacolo, è proprio al dialetto che l’autore preferisce affidare certe corrispondenze intime che, grazie alle peculiarità fonetiche, morfologiche e perfino sintattiche della parlata nativa, rievocano in modo assoluto la dimensione del ricordo, della contemplazione, del sentimento. Anche il senso di smarrimento di fronte al “gomitolo di vita”, ormai impossibile da ordinare o da sbrigliare, acquista in dialetto un potere espressivo difficilmente ripetibile: «… Lu jòmmere / s’à fatte ca ’n ce cape cchiù nu file, / s’à ’ngrussate accuscì / ca le dète ’n c-i-arrive cchiù a ’cchiappàrele. / C-i-àja mette’ na mane sotte e l’àtre / assòpre, pe’ purtàremele ’m pette / e strègnemele, gne se ce stattésse / tutte quante sta vite ammajuppàte». Perfino l’inadeguatezza che Rosato soffre nei confronti di una realtà ormai cieca, in cui ci si disfa in fretta anche della neve che «ammànte tutte le mahàgne» e «pe’ nu ccòne /  […] fa vvedé’ / nu mònne tutte bbèlle arepulìte», viene attutita dalla levigatezza di un linguaggio addolcito da una senectute che, se può indulgere a certi errori umani, non rinuncia a ribadire la fierezza del proprio vissuto. La dimensione strettamente privata di Rosato resta dunque un tema dominante per i lettori proprio grazie alla sua elevazione a poesia.

     Ancora adolescente Giuseppe Rosato comincia a disegnare vignette satiriche per il periodico “Il Travaso”, e, appena ventenne, mette in cantiere un’antologia poetica (Antologia dei moderni, realizzata con Giovanni Guardi per la CET di Lanciano, 1953) a cui aderiscono autori importanti, come Umberto Saba e Marino Moretti, ma anche un altro giovane abruzzese, il peligno Ottaviano Giannangeli. Insieme a quest’ultimo, e al teramano Giammario Sgattoni, terrà le redini della rivista “Dimensioni” (fondata da Giannangeli a Sulmona nel 1957 ma trasferita a Lanciano già l’anno seguente per concludere la sua attività a Pescara nel ’74), impegnata non solo a riunire gli scrittori abruzzesi già noti in ambito nazionale (Giovanni Titta Rosa, Mario Pomilio, Laudomia Bonanni, etc.) ma anche ad affermare nuovi nomi della scena letteraria (si pensi ai poeti della cosiddetta “Quinta generazione”, come Renato Minore, Clemente Di Leo e Sergio De Risio), a ribadire l’importanza della creazione di una Università abruzzese e a contestare l’impaludamento accademico che svaluta l’impegno dei veri operatori culturali (storica la querelle con Ettore Paratore e i convegni organizzati dall’Istituto di Studi Abruzzesi). Dal 1966 fino al 2008, sempre insieme a Giannangeli, Rosato è l’instancabile organizzatore del Premio nazionale “Lanciano” di poesia dialettale, la cui giuria è presieduta da Mario Sansone, e a cui si deve la scoperta o l’affermazione di autori di rilievo come Alessandro Dommarco, Ernesto Calzavara, Walter Galli, Franco Loi, Achille Serrao e Giovanni Nadiani. Attivo collaboratore di periodici e quotidiani, come “Il Tempo”, “Il Messaggero” “Il Resto del Carlino”, “Letterature Moderne” e “Tempo presente”, Giuseppe Rosato concretizza la sua passione per l’arte nel 1978 (stesso anno in cui dedica una monografia a Michele Cascella) fondando la rivista “Questarte” (attiva fino al 1986), con la collaborazione di Eugenio Riccitelli, in cui ospita interessanti interventi sulla questione artistica contemporanea. Il profondo rapporto di stima con Edoardo Tiboni lo porta ad essere scelto come autore di rubriche culturali per la Radio Rai di Pescara e ad occuparsi, in qualità di segretario generale, del Premio “Flaiano”. In oltre sessant’anni di attività letteraria (la sua prima raccolta, L’acqua felice, edita da Schwarz nel ’57, è accolta con entusiasmo da Pasolini, Pietro Cimatti ed Enrico Falqui) Rosato conquista numerosi premi di poesia (dal “Carducci”, 1960, al “Pascoli”, 2010), dimostrandosi anche abile narratore (il romanzo Un regno è un regno si aggiudica il Premio “Cinque vie” nel ’68 e il racconto E allora stringimi vince il Premio “Teramo” nel 1986).

     Sono certo, e lo ribadisco in occasione di questa celebrazione, che Giuseppe Rosato continuerà a resistere ad ogni inerzia, a dimostrare quell’operosità che sin dalle ore mattutine lo porta a immergersi nella lettura e a progettare opere da licenziare alle stampe. Che poi è l’ideale petrarchesco della Vita solitaria: «Dedicarsi alla lettura e alla scrittura, alternando l’una come riposo dell’altra, leggere ciò che scrissero gli antichi, scrivere ciò che leggeranno i posteri, a questi almeno, se a quelli non possiamo, mostrare la gratitudine dell’animo nostro per il dono delle lettere ricevuto dagli antichi».  

 

in copertina Giuseppe Rosato (foto di Maria Rosato) 

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