Il fattore differenza e l’asimmetria come motori creativi

La creatività non ha a che fare con il creare dal nulla, ma con il mettere insieme cose che già esistono in modi nuovi. È un concetto forse elementare, ma potente, perché è democratico, nella misura in cui ciascun individuo può essere creativo, e perché insiste sul passaggio attraverso le culture, intese non in senso intellettuale, ma antropologiche, di pratiche quotidiane, lingue, esperienze, ruoli che possono essere collocati anche nella stessa area geografica ma devono consentire di sperimentare su di sé l’attraversamento dei confini. La creatività non è, quindi, solo quella artistica, ma riguarda anche la soluzione di problemi quotidiani e qualsiasi tipo di scienza. Henri Poincaré lo scriveva già nel 1906, in Scienza e metodo: ‘la creatività è l’unione di elementi preesistenti in combinazioni nuove’.
Chi crea è individuo di confine, perciò, è un transfrontaliero che ha assunto su di sé la marginalità, prima di comprenderla, e che entra e esce da un insieme all’altro. Quella che io chiamo la centrifuga creativa deve aver lavato panni differenti prima di essere avviata, se vogliamo semplificare. Uno di questi panni può essere il dolore: quale altro motore è in grado di modificare la nostra visione del mondo e del nostro posto nel mondo più del dolore? Ma non solo. Anche l’ascolto musicale, la lettura, la manualità. Nulla, preso singolarmente, dà diritto ad essere creativi. Neanche l’istruzione, se si limita ad attraversare singoli settori e se non è curiosa. E questo spiegherebbe il motivo per cui paesi come Israele, terza nazione più istruita al mondo, ancora non sia riuscita a trovare una soluzione alla convivenza pacifica di culture diverse. L’assunzione su di sé delle diversità, come chiave di accesso e non come problema, è la risposta.

Riflettevo su questo e sul motivo per cui scrivo poesia e costruisco immagini che sembrano apparire dal nulla, ma che a posteriori sono associazioni mentali così immediate da sfuggire alla razionalità, mentre leggevo alcune vecchie note tratte da Gibbs, per cui gran parte della nostra rappresentazione dell’esistenza è metaforica. Un concetto democratico anche questo, che mi dà sollievo, perché rifuggo dall’idea dei poeti come esseri speciali. Allontana anziché avvicinare ed è quel che spesso accade con la poesia: roba da intellettuali, si pensa. Quindi, non la leggo, non la sperimento, non cerco di capirla. Eppure, la capacità di rappresentare in senso metaforico l’esistenza spiega perché alcune immagini usate in poesia arrivino del tutto inaspettate: fanno già parte della nostra capacità di apprendere l’esistenza, per dirla con Gibbs, e semplicemente strutturano in modo nuovo l’esperienza quotidiana. Di nuovo, torniamo alla creatività e al mettere insieme cose che già esistono in modi diversi. Ma, di nuovo, se l’arte e la creatività appartengono alla parola umano, la fruibilità della parola poetica è di tutti. E quindi quello che scrivo ha un senso, perché non mi sento meno o più umana degli altri, e posso rifarlo.
Altri due mattoncini si sono aggiunti a questo mio tentativo di pensare poesia e creatività in termini democratici. Due testi: uno, di Joyce Lussu, dal titolo Tradurre poesia, edito da Mondadori nel 1967 e fortunatamente ripubblicato da Robin nel 2013, che è un viaggio attraverso la personale ricerca di Joyce Lussu della parola poetica, in continenti diversi, con poeti da sensibilità diverse, un viaggio umano, anche, delicato e forte allo stesso tempo, e l’altro è un testo scientifico Chiralità. La vita è asimmetria?, di Louis Pasteur e Primo Levi, edito da Gattomerlino/Superstripes sempre nel 2013.
Di Joyce Lussu riporto l’aneddoto, tratto dal capitolo sui ‘canti’ eschimesi, in cui racconta che gli eschimesi non hanno una parola per esprimere il nostro ‘creare’. Il concetto di arte per loro ha – o per lo meno aveva quando ha scritto il libro – un significato completamente diverso dal nostro. Non esiste l’artista come lo intendiamo noi, tutti sanno scrivere una canzone e anche le poesie sono dei canti, di per sé, così come tutti sanno modellare l’avorio e l’osso, cacciare e pescare.

Quando l’eschimese tiene l’avorio non ancora lavorato leggermente nella mano, girando da una parte e dall’altra, mormora tra sé e sé: «Chi sei tu? Chi si nasconde qui». Infine esclama: «La foca!». Esamina l’avorio per trovare la sua forma nascosta e, se non gli appare subito, modella senza un fine preciso, canterellando assorto mentre lavora; la forma comincia a delinearsi: la foca, ch’era nascosta, emerge. Era stata sempre lì; non l’ha creata; l’ha liberata, l’ha aiutata a venir fuori.

Arte quindi è tirare fuori e tirare fuori appartiene a tutti.. Cos’è che allora rende una persona più creativa di un’altra? E qui entra il gioco il testo di Pasteur e Primo Levi, Chiralità. La vita è asimmetria?. Sebbene i termini scientifici mi siano spesso ostici e di non facile comprensione, ho l’abitudine di tentare di affrontare alcuni testi scientifici e, devo dire, ne esco sempre con un certo stupore quasi infantile. In questo caso, ammetto che ad aver attirato l’attenzione è stato il nome di Levi, che qui però scrive in quanto chimico, ma la meraviglia è stata doppia perché il principio di chiralità si riallaccia, per lo meno per la mia mente che procede per analogie e non è scientifica, a quello di creatività. La chiralità degli elementi chimici è quella proprietà per cui un elemento è privo di simmetria, cioè avendone due uguali non li si può sovrapporre nelle tre dimensioni. L’esempio più classico è quello delle mani: destra e sinistra non sono sovrapponibili. Ora, gli elementi chimici possono essere simmetrici o asimmetrici, ma la cosa curiosa è che le molecole viventi sono tutte asimmetriche. E c’è di più. Essendo le molecole viventi tutte asimmetriche c’è la probabilità che la vita sia stata generata dall’introduzione di un elemento asimmetrico in una precedente situazione di simmetria. In altre parole il caos (lo stesso del Big Bang?), la differenza, la vita, tanto che Levi parla di ‘maniaca preferenza della vita per le forme asimmetriche’ e di ‘utilità adattiva dell’asimmetria’.
Esemplare il caso riportato della tragedia del talidomide, un medicinale messo in commercio nel 1961 che sarebbe dovuto servire a ridurre le nausee mattutine in gravidanza e rivelatosi altamente dannoso per i feti, causando gravi malformazioni [in Italia, la Corte Costituzionale si è pronunciata sui risarcimenti nel 2019]. La molecola presente nel farmaco è chirale ed è tuttora usata nella cura di diverse malattie, ma in quel farmaco le sue due forme, destrogira e levogira, presenti in egual misura, sono diventate nemiche del corpo umano anziché amiche. Solo la forma levogira è associata alla vita, solo l’asimmetria quindi, le immagini non sovrapponibili, la diversità: ‘molti ritengono che comprendere perché nel vivente sia assente la forma destrogira, a differenza di quel che accade in laboratorio, costituirebbe un importante passo nella comprensione dell’origine della vita’, scrive in postfazione Giovanni Jona-Lasinio.
È forse azzardato associare la differenza alla vita e sicuramente la mia capacità di comprendere le spiegazioni scientifiche oltre gli assunti principali è quantomeno grezza e sommaria, ma il fascino dell’idea del fattore D=differenza come motore per la creazione rimane. Ed è un fascino che fa sembrare l’arte, la poesia (e anche la tecnica!) potenzialmente alla portata di tutti. Riappacifica con se stessi sapere che ognuno di noi può creare, apprendere metaforicamente l’esperienza, ognuno di noi è figlio di un’asimmetria e può non solo usarla, anzi dovrebbe difenderla. Allo stesso tempo la parola poetica è genuina quando nasce da un’asimmetria e può avere una valenza anche se nata da esperienze e individui periferici, proprio perché la periferia, urbana, territoriale, sociale, culturale, di genere, consente uno sguardo dai margini, un’acquisizione delle differenze su di sé. 

Wassily Kandinsky, Soft Hard (1927).

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