“Il ritrovamento del corpo”, Manni Editore. Massimo Maggiore: “La parola poetica deve rispondere ad un certo grado di precisione”.

tre domande, tre poesie

 

Pariamo dal titolo: qual è stata la scintilla che ha portato il tuo Il ritrovamento del corpo meglio: in che modo – ribadiamolo – la (tua) vita diventa linguaggio?
La silloge raccoglie una selezione di scritti prodotti in circa quattro anni. All’inizio l’oggetto della mia ricerca poetica non era definito. Come spesso mi capita, scrivo lasciandomi trascinare da un’idea iniziale, dal suono di una parola, da sollecitazioni profonde che provengono dal mio vissuto, dalla memoria, dalle mie emozioni del momento. La mia tecnica di scrittura si può d’altro canto descrivere come un processo di allontanamento dalla suggestione iniziale. La prima stesura si dipana a livello largamente inconscio o per flusso di coscienza e associazione di parole e immagini. Poi ci torno e metto a fuoco il tema centrale del testo, togliendo il materiale superfluo.
Man mano che i testi si accumulavano, mi sono reso conto di poter individuare una linea comune, nella presenza attraverso la corporeità, come elemento centrale del mio/nostro esserci nel mondo. Per dirla con la filosofia fenomenologica, il corpo è il punto zero della conoscenza. Un impluvio che accoglie tutto quello che deriva dell’esperienza dell’essere al mondo. Nella mia riflessione poetica, sono pertanto stato condizionato dalla pluridimensionalità del corpo. Il corpo non è solo arti o organi, il corpo è anche lo strumento essenziale che abbiamo per entrare in relazione con gli altri. È un luogo ed uno strumento, luogo e strumento dell’intersoggettività, che è anche sfuggente.
Non a caso, in esergo la mia silloge è dedicata “al mio luogo impossibile”: dedica che ho fatto avendo una persona ideale in mente. D’altro canto, l’impossibilità di quel luogo-corpo è legata alla dirompente forza della soggettività propria e in larga parte inattingibile che ogni corpo esprime. Un corpo si può molto desiderare, ma rimane comunque una tensione e un’intenzione, un orizzonte di senso che si può sfiorare, mai pienamente raggiungere. Rimane il meraviglioso mistero della assoluta libertà di quel corpo e di quella persona.
Allo stesso tempo, il corpo degli altri serve per conoscerci. Attraverso i nostri stessi sensi non avremo mai una percezione totale di noi stessi. Osservando però l’altro, per analogia, ricostruisco la mia immagine attraverso la sua. I corpi si (ri)conoscono.
Tornando dunque alla genesi della silloge, il titolo incentrato sul ritrovamento del corpo, sembrerebbe presupporre che esso si possa essere smarrito. Io credo che in una qualche misura ciò sia avvenuto: in primo luogo storicamente e culturalmente, a causa della ben nota contrapposizione “anima-corpo” che Platone ha introdotto nei geni del nostro pensiero occidentale circa duemilaquattrocento anni fa, con il dialogo “Fedone”. Il Fedone svaluta il corpo come luogo della instabilità, in contrasto con l’anima, che invece è il luogo della stabilità delle idee al di fuori del tempo. Il corpo, al contrario dell’anima, è un apparato per la morte, in perenne corruzione.
In secondo luogo, venendo ai nostri giorni, io sento che un portato della rivoluzione digitale sia quello di aver in qualche modo tolto realtà al corpo. Nella cosiddetta “infosfera”, dimensione in cui non c’è sostanzialmente confine tra l’analogico e il digitale, alcune manifestazioni decisive dell’umano si attenuano, tendono a svanire. Si attenuano in particolare diverse manifestazioni legate alla verità del corpo. Il corpo emana odore, calore, il corpo palpita, il corpo è tridimensionale, il corpo rilascia umori, il corpo non è ubiquo (scegliamo col corpo di essere o non essere in un posto). Il corpo ha una voce, il corpo ha un linguaggio che si adatta in tempo reale al mutare del contesto e così via.
Sono queste tutte manifestazioni del corpo che tendono a evaporare nel digitale. Anche per il suo determinismo e rigidità algoritmica, per il fatto di indurci ad offrire una immagine di noi comunque irreale o trasfigurata. I corpi stessi rappresentati in rete sono messaggi, con un fine precipuo: quello di conquistare un “mi piace” o visualizzazioni online. Naturalmente qui ho in mente quel che accade nella maggior parte dei casi, non necessariamente valide per il singolo utente della rete (tra i quali mi annovero peraltro). Si tratta comunque di riflessioni non mie, ma che sono maturate nell’ambito della filosofia sociale che negli ultimi anni naturalmente guarda moltissimo alla rete.
Per tornare dunque al tema che ponevo all’inizio: sì, il corpo si è smarrito, e il suo ritrovamento passa attraverso un recupero introspettivo delle sue varie dimensioni. Da quelle sensoriali a quelle sociali o intersoggettive, a cui aggiungo nei miei testi la dimensione temporale – diversi testi sono recuperi di memoria della mia infanzia – nonché in definitiva la funzione a cui accennavo prima, ossia del corpo come solo strumento di conoscenza che, in quanto tale, ha un rapporto di scambio continuo non solo con gli altri, ma anche con gli elementi naturali. A questo riguardo, in alcuni miei testi uso la natura in senso allegorico, come linguaggio rappresentativo e trasfigurato del destino dei corpi.
La silloge comprende otto sezioni, dedicate a varie manifestazioni corporee. Per citare solo la prima (Vita Involontaria) e l’ultima (Corpo di nebbia) esse individuano l’incipit, il prendere “corpo” della vita – involontaria perché del tutto casuale – e la sua fine, la scomparsa del corpo. Non ho una visione escatologica della vita. Credo che tutto finisca col nostro corpo, nego la dittatura platonica, l’anima è un’illusione, bellissima e consolatoria, una grande invenzione poetica, ma un’illusione. Il nome che diamo alla forza dirompente del desiderio, alla vita che si desidera, per dirla con Leopardi, al divenire come sola legge del mondo. E in realtà io trovo tutto questo estremamente consolatorio, non il contrario.

“E se svoltare gli angoli di antichi/ palazzi, se fosse tutto lì il senso/ del tempo?”, con i tuoi versi per chiedere: ad oggi, dove sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento?
Non si è mai integralmente trasparenti a se stessi. Questo è pressoché impossibile. Siamo opachi a noi stessi. Tuttavia, la poesia è lo strumento che io adopero per cercare di togliere qualche strato di opacità dal mio io o – e non sembri un paradosso – per guardare più da vicino il buco nero del mio inconscio. Non è – ben inteso – solo uno strumento di introspezione, ma anche uno strumento di esplorazione del mondo esterno. Di “appercezione”, ossia la percezione accompagnata dalla coscienza – più o meno chiara – di percepire.
Le poesie che mi sembrano più riuscite tra le mie sono quelle in cui questo porsi in una posizione di osservazione pura emerge meglio. La poesia aiuta moltissimo al nitore della propria idea di mondo. La parola poetica deve infatti rispondere ad un certo grado di precisione. La ricerca è quella del dire che non può altrimenti essere detto. Naturalmente non è una ricerca sempre coronata da successo. È tuttavia una ricerca necessaria. Per dirla con Sartre, a differenza della prosa, per cui le parole sono usate come significanti, come designazioni di oggetti, in poesia le parole diventano esse stesse “oggetto”. Devono assorbire e quasi trascendere l’emozione che le ha provocate, l’emozione diventa “cosa”.
Questa riflessione si attaglia secondo me bene ai versi citati in questa domanda. Questa poesia è una di quelle a cui sono più affezionato, si trova a pagina 73 della silloge, all’interno della sezione Intermittenze del Corpo. Essa affronta il tema del tempo, della temporalità del corpo di ciascuno, del suo essere vettore di tempo e soggetto al tempo (per questo il corpo è intermittente). Il tempo è pura percezione, percezione che si trasforma e assume un senso nella memoria. Tutto ciò che non è recuperato dalla memoria è come se non fosse mai esistito. Naturalmente esistono vari livelli di memoria e, quindi, diverse intensità dell’esistenza che si è costruita, mediante l’attraversamento dello spazio e del tempo coi nostri corpi. Qui devo citare nuovamente Sartre e la sua tesi esistenzialista che vede l’essere umano (il “per sé” secondo la definizione sartriana) come caratterizzato da una mancanza d’essere, un non essere, un nulla. Nel senso che l’essere umano è continuamente sospinto in avanti, fuori, lontano da sé stesso, è un essere della lontananza, continuamente aperto verso i propri possibili. Quindi tutto il senso del tempo (e dell’essere umano) potrebbe essere, come ipotizzo nella poesia, forse proprio nello svoltare gli angoli di antichi palazzi: quest’ultimi rappresentano la permanenza inerte, mentre il gesto del corpo di svoltare gli angoli di quei palazzi è un gesto di scoperta del proprio possibile, il tentativo di raggiungere la propria lontananza, di attraversare il non essere.
Quando questo accade e quello svoltare gli angoli ci pone dinanzi alla scoperta di una realtà che rimane impressa nella memoria, quel gesto produce tempo. Per questo la prima parte di questo componimento fa riferimento ad un fatto già parte della memoria, l’incontro con il compagno delle medie, presentato con la finzione di una legge che sospende gli anni. Così procedendo, si vuole prefigurare la possibilità di produzione di nuova esistenza significativa e quindi di nuovo tempo della memoria.

“Il cielo non è mai stato/ così certo come quando/ lo si vede da dentro/ un grumo di colore ad olio.”, ancora i tuoi versi per chiedere: la poesia è (forse) un destino?
La prima risposta che mi verrebbe da dare a questa domanda è che la poesia, più che un destino, sia una necessità. È la necessità della lingua di misurarsi con la propria finitezza, diventando mezzo di espansione di senso.
Come ho detto nella risposta alla prima domanda, la lingua, le parole hanno una intrinseca ambivalenza: sono dei significanti, ma possono essere delle cose, degli oggetti osservabili in quanto tali. Il vincolo del significato delle parole è il primo codice di comunicazione che si instaura con chi legga il testo poetico. Ma poi– se la poesia è riuscita – vi si innestano altri codici di comunicazione, che sono il simbolo, l’evocazione, la parola come puro suono, la metafora, la creazione di immagini.
Se dovessi guardare al mio rapporto personale con la poesia, allora sì, potrei anche dire che sia un destino. Questo perché sin da piccolo ho sempre voluto giocare con le parole, osservarle da vicino, scomporle, scuoterle, decostruirle. Questo mio atteggiamento è anche il portato del mio amore profondo per la letteratura, con cui ho trovato il modo di confrontarmi come autore, e non solo come lettore, attraverso la poesia. È come se avessi voluto aggiungere la mia voce a quella dei tanti autori e autrici che amo e che sono diventati intimi amici e confidenti attraverso i loro scritti, come se avessi voluto instaurare un dialogo con loro, in forma per l’appunto poetica.
I versi citati, che fanno parte di un testo che si trova a pagina 23, nella sezione “Riflesso Fossile”, si inscrivono in questa intenzione dialogante. In un altro testo della Silloge, redatto in prosa poetica (testo che si trova a pagina 78 all’interno della Sezione “Intermittenze del Corpo”), ho scritto che la poesia si realizza sempre in forma interpersonale, chiudendo il testo con la frase “il poeta è un’identità diffusa”. Anche la poesia di cui in questa domanda sono citati i versi finali esprime una interazione con una diversa forma artistica, la pittura, e si misura con la dimensione della rappresentazione pura: essa vuole dire che la verità dell’esperienza esistenziale è quella della rappresentazione artistica. Questo anche ispirato da Marcel Proust che in una famosissima pagina della sua Recherche, nell’ultimo volume “Il tempo Ritrovato”, afferma senza mezzi termini che “La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta è la letteratura. Vita che, in un certo senso, abita in ogni istante in tutti gli uomini, non meno che nell’artista. Ma essi non la vedono, perché non cercano di illuminarla”.

Scelti per voi (da Il Ritrovamento del Corpo, Manni Editore, 2024)

Vorrei riprodurre su questa pagina
la tua voce, madre
quel tuo partorirmi dalla bocca.
È da lì che sono nato, non dal tuo ventre
dalla tua dolcezza sull’ultima lettera.
Dovrebbe essere un venerdì
che fece delle parole prima volta
l’assoluto vero della prima volta.
Apersi gli occhi chissà su cosa
come si presentò il mondo.
Forse non aprii mai gli occhi
e cominciai a sognare di guardare

Sempre pronto a trasformare
fiori in frutto
petali e corolle
in succo
tirata la linfa dai
raggi del sole
diventare dolce
per farsi addentare
e poi planare in terra
sotto forma di globuli
minuscoli di istruzioni
per le radici, poi ricominciare
la produzione della seduzione.

Anche guardarsi allo specchio
serve a immaginare
di suscitare il desiderio altrui
voltarsi per vedere la schiena
quasi fosse la schiena di un altro.

La poesia che segue è in due stesure. La n. 1 è quella originaria, la n. 2 quella definitiva, poi scelta per la Silloge. Come si vede, nella seconda stesura, oltre ad aver eliminato il titolo (come ho fatto anche per tutte le altre poesie che inizialmente ce l’avevano) gran parte del testo è stata omessa, non ne fa più parte. Ho ritenuto molto più efficace partire con una frase aperta, la cui apertura è segnalata dall’uso della congiunzione “e” messa all’inizio del verso e ripetuta nei successivi tre, eliminando tutto il superfluo. Mi sono reso conto che a fronte di un testo molto più lungo, il vero inizio della poesia fosse lì, verso la fine.

N. 1

ESITAZIONE DELL’AMORE

Basta non saperlo
il tema specifico, in fine
la stolida arma del sorriso
delle note semplici.
Perché le cose mi resistono?
Perché non si placano?
La vittoria è prossima
tuttavia, la nudità aleggia
il corpo non si oppone
determinato a frantumarsi
nelle sue componenti minime
a essere inalabile
a perdita d’occhio.

E l’amore?
E la verità?
E i giorni, come passano i giorni?
I giorni si avventano, non passano
come se fosse un fatto innocuo
guardare un calendario.
Non si calma il giorno nella cinta
del riquadro da riempire di un fatto,
si dilava passando a lato.
Arde del fuoco che estingue il possibile
trasportato dal vento del giorno dopo.

E così si sta in un unico tempo
e una volta è mai
una volta è non ancora.

Pure l’amore è dilatato tra le maglie
sopra il petto, lasciando tracce di feródo
dalla pressione sul freno azionato
fuori tempo, dopo un bacio
prima di fidarsi delle parole
fin lì nascoste, che si alleano con la bocca.

N.2

E così si sta in un unico tempo
e una volta è mai
e una volta è non ancora.

Pure l’amore è dilatato tra le maglie
sopra il petto, lasciando tracce di feródo
dalla pressione sul freno azionato
fuori tempo, dopo un bacio
prima di fidarsi delle parole
fin lì nascoste, che si alleano con la bocca


Massimo Maggiore nasce in provincia di Lecce nel luglio del 1971. Ultimato il liceo classico, nel novembre del 1990 si trasferisce a Milano, per iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica. Conseguita la laurea, ha intrapreso da subito la carriera di avvocato, che esercita con specializzazione in diritto delle tecnologie digitali e proprietà intellettuale. Massimo ha altresì un master in Technology, Media and Telecommunications Law presso la Queen Mary University di Londra. Dal 2006 è altresì docente a contratto in vari corsi presso l’Università Bocconi. Sul fronte poetico, pur scrivendo dai suoi vent’anni, epoca in cui ha partecipato con successo ad alcun concorsi di poesia, decide solo di recente di venire allo scoperto, dapprima con la raccolta Variazioni (su) conoscenza, tempo e amore (Porto Seguro 2023) e, quindi, con il Ritrovamento del Corpo (Manni 2024).

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