tre domande, tre poesie
Tempo di pienezza e di ardore, in questo libro di Andrea Longega l’estate diventa desiderio di pace da trovare nei ritmi che rallentano e nello stare coi corpi mentre guardano il mare. Quello che scorre nelle quattro sezioni che compongono l’opera, suddivise per anno – 2020, 2021, 2022, 2023 – è una sorta di diario di viaggio, ambientato soprattutto a Creta, dove il poeta è solito “disperatamente” ritornare ogni istà, spinto da un desiderio di riconoscersi e di animare un ricordo. Addirittura chi prende parola pare pregare affinché si fermi il tempo nell’isola amata, non solo per impedire che sia consunta dallo sguardo turistico (come Venezia, città dell’autore), ma anche perché, se quel tempo si ferma, si ferma anche il proprio tempo. Vediamo bambini che scavano buche in spiaggia o in bicicletta, donne che chiacchierano in acqua, pescatori, cene negli alberghi, uomini che trascorrono giornate sotto il sole, guardando il mare, che a volte è un teatro, a volte Nuereyev malato. In questi frammenti risplendono epifanie legate al mito, cortocircuiti tra tombe minoiche usate dai tedeschi durante la guerra e le fotografie dei turisti, le stelle di Saffo e i lampioni, parole come Odissea, episteme, che fanno risuonare in profondità la cultura appresa. Il dialetto veneziano (con incursioni ironiche o stranianti dell’inglese e del greco), ispirato e in punta di lirica, non si stacca mai da terra, eppure una luce sposta sempre il punto di fuga della scena più in là, facendo restare in gola il gropo di una voce che non vuole lasciare il mare.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo ISTA’, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Nel caso di questa raccolta, non c’è stato alle spalle un progetto o una suggestione che poi ha visto fluire immagini e parole, si è trattato solamente di raccogliere ciò che il tempo spontaneamente offriva durante i ripetuti soggiorni in Grecia, soprattutto a Creta. Da un lato credo uscisse tutto il mio stupore nel trovarmi in un mondo fortemente diverso dal mio di origine (Venezia), dall’altro, pensandoci adesso, era forse il tentativo di offrire quanto di bello potevo dare per essere da quel mondo ospitato e accettato. Volevo essere parte di quella realtà. Quale miglior modo di farmela amica, se non quello di descriverla nei suoi aspetti più vari? In tutte le mie poesie ci sono io, ci sono io nel mondo e il mio modo di cogliere gli altri nel mondo. La mia poesia si nutre solo di ciò che vede, è ben raro che un mio testo prenda vita da una riflessione teorica, tutta la riflessione sta nelle cose e nelle azioni di uomini e animali. Ho fatto mio lo splendido e inarrivabile distico di Sandro Penna: Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo / che il mio bianco taccuino sotto il sole. L’ho fatto, anche con molto sforzo, quando dice di amare ogni cosa nel mondo. La vita mi ha riservato prove molte dure… ma eccomi qua. E poi mi premeva dire questo: la poesia non è per me terapeutica e leggere e scrivere non mi hanno reso un uomo migliore. Sono felice però quando gli altri mi dicono che hanno trovato conforto nei miei versi, quando mi dicono che in quelle parole si sono rivisti e che quelle parole sono state per loro motivo di riflessione o di commozione. E queste sono le cose importanti. Per il resto il passaggio da vita a parola scritta è di solito abbastanza lineare. Il bianco taccuino è sempre con me, ma a volte basta lo spazio bianco di un libro in corso di lettura o lo scontrino di un bar.
Il tuo libro reca le traduzioni in lingua italiana di ogni singola poesia, a proposito chiediamo: tradurre (quindi anche da dialetto) crediamo equivalga a creare un verso nuovo, qual è la tua idea in proposito (la poesia è realmente traducibile)?
Penso che la poesia sia traducibile e che sia bello farlo. Penso anche che per farlo sia meglio essere poeti ma che anche questo non sia sufficiente. Meglio se il traduttore possiede anche delle basi di traduttologia per capire almeno quale direzione prendere. Non ci si può improvvisare traduttori come non ci si può improvvisare poeti. Non è solo questione di conoscere bene una lingua: bisogna anche conoscere profondamente la cultura che l’ha prodotta e i costumi di chi la parla. Io mi improvviso traduttore con il greco moderno, ma sono distante anni luce dal possedere sia la lingua sia la cultura di una civiltà così ricca, e perciò perfettamente consapevole che lo faccio per diletto. Per quanto riguarda le mie di poesie, ho quasi sempre fornito la traduzione in italiano a piè di pagina (richiesta anche per poter mandare il libro ai premi letterari), ma ho optato per quella che io, forse arbitrariamente, chiamo “traduzione di lavoro”. Non ricreo infatti il verso, ma ne propongo una traduzione quasi sempre letterale, solo per fornire al lettore la possibilità di comprendere le parole più difficili. Il veneziano ha questo di bello però, rispetto a quasi tutti gli altri dialetti della penisola, che è fortemente comprensibile. Mi è capitato di leggere a Roma o a Napoli, e non è stato necessario proporre la traduzione. La difficoltà maggiore che incontro, anche solo nel fare questa semplice trasposizione, è determinata da quei termini fortemente connotati che è quasi impossibile tradurre senza perdere ampiezza di significato e musicalità (la musicalità, ahimè, la si perde comunque quasi sempre).
“quel generoso spetacolo de luce…” // fa’ che sia questa la pase che serco” con i tuoi versi per chiedere: la poesia è (forse) un destino?
In quella poesia prefiguravo come destino il vivere a Creta, cosa che si sta verificando, e non tanto la poesia in sé. Non ritengo lo scrivere poesia qualcosa di diverso o di più alto rispetto a qualsiasi altro “fare”. Non credo che il poeta sia un prescelto. Potrei forse pensarlo per poeti grandi, che hanno lasciato un segno soprattutto dando voce e forza alla loro nazione, al loro popolo. Rimango tenacemente fedele al “non lo so, non lo so” di Szymborska quando le chiedevano che cosa fosse per lei la poesia.
Propongo tre testi da “Istà”. In tutta la poesia epigrammatica, e io credo che bene o male la mia ricada in questo ambito, la parte più importante del testo è la chiusa, il famoso fulmen in clausula. Mi ritengo fortunato quando gli ultimi versi si presentano quasi perfetti, ma a volte la lotta è lunga e a volte infruttuosa (non troppo lunga la lotta, altrimenti mi trovo spesso costretto a scartare il tutto). Riguardando le prime versioni dell’ultimo testo qui presentato, mi accorgo ad esempio che insistevo con un’immagine abbastanza astratta (“tuto cresse a maravegia / e quasi par dispeto / nel campo abandonà”), fino a quando, lungo una strada, ho visto l’immagine, più concreta, che mi serviva (“ matura l’ua / giusto sóra ‘l marciapìe”).
Scelti per voi
(da Istà di Andrea Longega, Samuele Editore – LA GIALLA ORO)
PANAGHÌA
sempre più addentro, sempre più
nel cuore del macigno
EUGENIO MONTALE
ʼL asfalto quasi perfeto de la strada
maestra se ti giri dopo su quela secondaria
se impenisse de sfése, de busi e de tacóni
e un fià più su se fa adiritura strada steràda
sentiero in mezo ai ulivi, prima largo ma dopo
sempre più stréto e rosso e segnà a fondo
da le ròde de le motocicléte, fin a deventar
solo pière e verde séco incastonài nel vento
e ala fine, quasi in sima, sóto un àlbaro
storto e solitario el muso imperscrutabile
de na capra dal pelo lóngo e nero, el so pìe
duro che bàte sóra un této basso de lamiera
e a ti te vegnarìa quasi da sbassar i oci
da inzenociarte, come davanti
a celeste panaghìa.
PANAGHÌA Lʼasfalto quasi perfetto della strada / maestra se poi giri su quella secondaria / si riempie di crepe, di buchi e di rattoppi / e un poʼ più su diventa addirittura strada sterrata / sentiero in mezzo agli ulivi, prima largo ma poi / sempre più stretto e rosso e segnato a fondo / dalle ruote delle motociclette, fino a diventare / solo pietre e verde secco incastonati nel vento / e alla fine, quasi in cima, sotto un albero / storto e solitario il muso imperscrutabile / di una capra dal pelo lungo e nero, il suo piede / duro che batte sopra un tetto basso di lamiera / e a te verrebbe quasi da abbassare gli occhi / da inginocchiarti, come davanti / a celeste panaghìa.
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De sera a la taverna me piase
véder i ritorni, dopo un ano,
come el mio. Stasera tocava
a de le fìe forse tedesche, i fiori
de ʼl àlbaro del pan tra i cavéi –
i proprietari ghe xe ʼndai
incontro tuti e tre diséndoghe kalà?
kalà? e strenzéndoghe le man –
ieri sera i ga fato cussì anca co mi
ma co mi un fià de più – mi so
un cliente special.
Di sera alla taverna mi piace / vedere i ritorni, dopo un anno, / come il mio. Stasera era il turno / di alcune ragazze forse tedesche, i fiori / dellʼalbero del pane tra i capelli – / i proprietari si sono fatti / incontro tutti e tre dicendo bene? / bene? e stringendo loro le mani – // ieri sera avevano fatto così anche con me / ma con me un poʼ di più – io sono / un cliente speciale.
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No ghe xe diferensa tra i fiori e le piante
che cresse nei giardini e queli che cresse
fòra, contro i muri o su la poca tera
a fianco de le strade, in mezo ai fèri rùzini
e ale rédi che no recinta niente – forse solo
un fià più de ordine, un criterio – ma tante volte
gnanca quelo – cossa ghe fa na riga de girasoli
vissin a na bouganville? – le stesse piante
i stessi fiori, e forse qualchidun de più
te compagnarà anca fòra – matura lʼua
giusto sóra ʼl marciapìe.
Non cʼè differenza tra i fiori e le piante / che crescono nei giardini e quelli che crescono / fuori, contro i muri o sulla poca terra / a fianco delle strade, in mezzo ai ferri arrugginiti / alle reti che non recintano niente – forse solo / un poʼ più di ordine, un criterio – ma tante volte / neppure quello – cosa ci fa una riga di girasoli / vicino a una bouganville? – le stesse piante / gli stessi fiori, e forse qualcuno in più / ti accompagneranno anche fuori – matura lʼuva / proprio sopra il marciapiede.
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Andrea Longega è nato a Venezia nel 1967 e vive tra Murano e Kìssamos. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Ponte de mèzo (Campanotto, 2002); Fiori nòvi (Lietocolle, 2004); El tempo de i basi (Edizioni d’if, 2009); Finìo de zogàr (Il ponte del sale, 2012); Caterina (come le cóe dei cardelini) (Edizioni l’Obliquo, 2013); la plaquette Primo lustro (Nervi Edizioni, 2015); La seconda cìcara de tè (ATì editore, 2017; premio Cappello 2018); Atene (venìndo zo dal Licabéto) (Ronzani, 2019); A dìr el véro (MC edizioni, 2020); Caterina (come le cóe dei cardelini) (Le Lettere, 2024; nuova edizione) e Istà (Samuele Editore – Pordenonelegge, 2024). Numerose le collaborazioni con le Edizioni dellʼOmbra di Gaetano Bevilacqua. Nel 2017 è stato finalista al concorso teatrale Monologando con El scòrzo.