Prima del declivio
Per perdersi e rinsavire
le tue fanfaluche neppure distraevano
l’attesa del declivio
eravamo a squame sognatori
strabuzzati
sparsi.
Per rincontrarsi e ammattire
impazzava l’umida fanghiglia sul volto
impazziva il ciarpame del tempo
assorto su di noi
avvolti
sparsi.
Per congiungersi e disgiungersi
le mani deploravano
la morsa androgina tra le dita di pietra
di un abbraccio
ammanettati
sparsi.
Per vivere e morire
inventavamo movenze da piumati
nella posa volante dell’urlo che squittisce
stralunati
sparsi.
***
A quei signori
Ci illudevamo che fosse un autentico
strillo di coerenza
per poi stupirci,
di chimere disfattisti,
che era un gesto afasico
d’inadempienza.
Dovevamo sapere il minimo comune
che ci affoga nella manierata
inappartenenza: quel fluire silente
del tempo che rivela il suo sguardo
nelle cose in potenza.
A quei signori imbalsamati in saturi
ritornelli di laccata compiacenza
dovevamo spiegare che nelle loro mani
non cresce alcuna fruttifera semenza:
dovevamo gridare ancora più forte
la nostra mascherata inveterata essenza.
***
Mezzo boccale
E si è qui a galleggiare
aggrappati al filo di un boccale
mezzi vuoti
mezzi pieni
con acqua diluiti.
Anche le tenui circostanze
di un appiglio
fortuito l’essere in bilico –
s’incagliano in un equilibrio
precario instabile.
Soli certo
con ragioni annacquate
surrettizie certo
non di altri private
Soli.
Ci sarà luce
o baratro sullo sfondo
di un carname appeso?
Tuttavia si continua
continuare si deve
il gioco a mezz’acqua
sospensione liquida
su moine di demoni
bevitori.
E si è qui a galleggiare
aggrappati al filo di un boccale
mezzi pieni
mezzi vuoti
con acqua diluiti.
***
Anatomia urbana
S’impongono
topografie di assenza:
per chi non ha farneticato colori
nel buio provinciale del metrò
della città
ventre,
per chi non ha piantato parole
nello stradario muto di passanti
della città
dita,
per chi non ha slacciato le scarpe
nei binari scalo merci
della città
vene.
L’evento è la campana che scandisce l’aria
ad ogni tocco di colomba.
L’ordinario è il luccichio della strada
da capelli ancora fluenti
strisciata.
S’impongono
topografie di assenza:
ma tu ridisegna il vuoto a scala
ad ogni guizzo di confine
ad ogni planimetria di libertà.
Non sarà questa fine
indefinita città
a sventrarci.
***
Abisso di alghe
E sprofonda
su quella seggiola di alghe
non alzarti più:
il tuo smacco fu il mare
cultore di sugheri e di morti.
E sprofonda
sii straniero ai più –
e liberati di quel puzzo
nello scarico dei sogni.
Per rinascere
volo
di purezza
confine.
***
Per la vita a farsi
Un gioco da prestigiatori
si direbbe,
se non fosse la vita a farsi illusione
e sfera.
La maga dà le carte e bacia l’amuleto
ma sono trucchi incanutiti
per chi ha perduto l’amante più vero.
Chiude la festa:
il presentator cappello
annuncia il ricovero da matto
senza smoking e baffo nero
– il tendone ormai è un ritrovo
annoiato di colombe –
solo lassù un lascito
sottoveste di bolero.
***
Se ardo
Mi lavo di stelle
la testa
più sogno più ardo di terra
se sfioro –
non posso saziare
le mani callose di cielo –
sono di ipocrite carezze
falsario scampato
al diluvio di pupille bucate
se sprofondo –
mi ritrovo a stare a galla
su vetri ardenti come tempie
baciate –
ritrattista che ruba
schizzi di bianco
alla notte più nera.
***
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