![Edouard Vuillard, Breton House x emiliano zappalà](https://i0.wp.com/www.lestroverso.it/wp-content/uploads/2014/02/Edouard-Vuillard-Breton-House-x-emiliano-zappal%C3%A0.jpg?resize=800%2C621&ssl=1)
Era la nostra casa sull’albero. Sotto, si vedeva il deserto raggiungere ogni luogo. E le croci nude e grigie sullo sfondo color polvere mentre giravano, dritte e impalate, sul nulla… E si vedeva il solco serpentino sulla sabbia – il sentiero delle iguane – e attorno gli ultimi gruppi d’uomini nudi, intenti a coltivare granelli di fuoco. La notte calava come una scure, trascinava così tanto cielo che non sapevi più dove guardare. I tuoi capelli profumavano di lavanda e cenere. Tu iniziavi a contare le stelle e io, sprofondavo all’improvviso in un sonno senza sogni. *** In fondo, lo spettacolo non è restare in equilibrio, scegliere con cura il piede da stendere sulla fune, respirare la polvere; non è ruotare i palmi aperti non è il ginocchio sbucciato. Lo spettacolo è approssimare il peso delle tue ossa, nell’attimo prima che il passo crolli, arrivare all’ultimo centimetro, all’un-due-tre stella dei pazzi; è l’aver già staccato il salto e non essersene accorti. *** La corsa arriva da dietro le spalle. La fuga cieca Nell’ultimo sorridere che spacca la notte; la risposta è nel passo gelato; l’attesa del giorno è il ritorno che riapre il cerchio. La corsa arriva da dietro, rimbalza nel ventre poi muore, nel morso, nell’errore di non aver rincorso. Nel pugnale schiantato, con questo vigore senza appartenenza. *** Il nonno ha combattuto tre guerre. Lo capisci da come sta piantato a terra, duro, come un pezzo di corallo. Ha due occhi che fissano sempre il punto più lontano della stanza e quando te li inchioda addosso senti la puntura nella carne. Lo catturarono in Albania. Torturato per sei giorni e non un lamento. Solo un tedesco riuscì a piegarlo; si chiamava Alois Alzheimer. Ad uno ad uno gli comprò tutti i ricordi per pochi soldi. Li vendette ad un rigattiere straniero. Il nonno sta ancora piantato come un marmo a fissare il punto più distante dell’universo. Nei suoi occhi c’è la perfetta cornice di una vita, ma la tela che ci stava dentro adesso fa da tappeto in un qualche bazar indiano. *** Era il tempo di miseria; il pane raffermo sul tavolo – la luce, una lama fuori bersaglio – i lumi lontani degli ultimi migranti (oltre il litorale una costellazione di disperati). L’acciaio era stato fuso in una lega deforme le navi erano salpate la neve si faceva fitta, giaceva distratta, ammonticchiata come un incubo, e nuda, come un’alba. È il tempo di miseria, e sul tavolo i quadrati si alternano al vuoto il pane a metà, il gesto sospeso – sottratto. Qualcuno è rimasto, sotto le tormente; spaccherà l’acciaio si sporcherà le mani di terra, sprecherà altre lacrime, altre grida. Arriveranno degli stranieri Impareremo un’altra lingua… *** Ci sono mattine in cui capita, di passare per certe strade per certi quartieri ammusoliti, usuali riletti sempre a metà come i racconti dei bambini, sgomitolati da lontano. Mentre qualcosa è cambiato impercettibilmente nelle macchie nascoste sotto le ciglia dei palazzi, delle scuole, dei bar; un secolo è morto e si è portato dietro un millennio, troppo aperto, troppo nuovo, troppo vago. Qualcuno ha sussurrato una (d)istruzione che è rimasta esposta, nuda scrostata, scarnificata. E ci siamo passati in mezzo, sempre con le mani in tasca, per voltarci indietro, verso qualcosa che c’era già stato inatteso e adesso torna, sempre, inascoltato. *** Avevo già visto questa scena della mia vita solo che non ricordavo l’uomo con il grande cappotto marrone, né la donna ferma a contare i granelli di grandine. Non ricordavo il disordine, non ricordavo quell’odore disperato. È tardi. L’orologio avanza. Esplode deciso su ogni secondo. Mi alzo prima che suoni la sveglia mi vesto ed in un attimo sono già alla porta. ***
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