Fatico sempre parecchio a parlare di me, e soprattutto di me che scrivo. C’è stato un tempo estremamente giovane in cui lo facevo di nascosto: piccoli fogli occultati tra pagine di altri libri e che ancora saltano fuori facendomi sorridere. Non ricordo epifanie o momenti risolutivi in cui io possa aver deciso di scrivere, e in verità nemmeno oggi mi pongo il problema di “doverlo” fare. Nel mio caso si è sempre trattato di un bisogno intimo, naturale come il bicchiere d’acqua con cui comincio la giornata: l’urgenza di salvare quanto di prossimo e di umano mi venga a portata d’occhio e di mente. Dalla scrittura non mi aspetto più di quanto non le abbia già preso finora: la serenità di una stanza silenziosa eppure affollata, il privilegio di un tempo radicalmente mio, la possibilità – estremamente ambiziosa – di causare un piccolo fiat lux con il fiammifero che porto continuamente in tasca e che accarezzo con la punta delle dita. Mi è sempre sembrato che molta parte di vita – quella meno in luce – andasse sprecata, che molte storie reali o possibili meritassero voce, che la spiaggia fosse sempre piena di preziose conchiglie, ma che si fosse troppo distratti dalla marina per chinarsi a raccattarle. Tuttavia è anche difficile. Difficile capire cosa debba essere raccolto e condiviso. Difficile raccontare qualcosa che aggiunga realmente o, in alternativa, scegliere di tacere. Credo che uno scrittore dovrebbe anzitutto imparare questo: aspettare il momento giusto, la storia giusta, la parete adatta per ruvidità e consistenza e solo lì strofinare la capocchia del suo piccolo fiammifero. Prima di scrivere bisognerebbe ogni volta sedersi e domandarsi: se questo tempo fosse l’ultimo impiegherei quest’ora a raccontare proprio questa storia? E solo se la risposta è sì, andare avanti.
(l’EstroVerso Novembre – Dicembre 2011)
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