Isabella Capurso, “la mia è una natura dei sensi, dell’intuito… esplosiva”.

Isabella Capurso è poeta, pittrice, fotografa, geografa con dottorato in studi urbani. Classe 1984, milanese, l’attività di ricerca a Parigi e in alcune aree urbane europee e africane alle spalle, oggi si occupa di sostenibilità, scappa spesso in Calabria, terra adottiva, ma a Milano possiede il laboratorio ‘Le Poisson Lumière’, dove organizza e ospita piccole mostre ed eventi culturali. Una voce multiforme che nel 2021 ha pubblicato ‘Il pesce lanterna’, Gattomerlino Edizioni.

 

Oh, il pesce degli abissi!
O dovrei dirti pesce luce
Tu vivi chissà dove,
Nell’oscurità, nell’Oltretomba, riemergi come un
sopravvissuto e ancora tu riesci a portare la luce.
Negletto, sommerso. Hai una piccola speranza.
Ma che speranza è questa?
Predatore cieco, democratico. Affamato di vita. Certi non
sanno neppure che esisti.
Sghembo come i torturati, perentorio di vissuti catacombali,
antiretorico.
Sei innocente.
Eccoti.

Audino: Leggendoti si percepisce un continuo sfiorare le cose, l’imminente scricchiolio di una crepa che non si riesce a distinguere. Si sentono il peso e la delicatezza di ogni verso, ma la parola è fonda, eco di silenzi, l’io è sì nominato, ma non c’è, sommerso dai bar della pressione atmosferica.

Capurso: Essere allusivo è un attributo caratteristico del pesce lanterna. La ‘crepa’ è qualcosa che si forma in presenza, spesso, di sommovimenti nella struttura di una casa. Anche lo ‘scricchiolio’ denuncia un impercettibile cambiamento dello stato delle cose. La caratteristica comune a questi concetti è che ‘presagiscono’, senza essere certe previsioni. Il pesce lanterna è ambiguo, è una voce rapsodica, surrettizia, inconscia, ‘striscia nel sottobosco di tutte le cose apparenti’. Per emergere necessita di un viatico e questo è, appunto, ‘una crepa’, ovvero una apertura. E questa apertura, che talvolta (o spesso) appare da principio come una ferita, è però anche il tramite di passaggio della bellezza e della poesia.

Lei si porta appresso un carapace
Pesante
Tortuoso
Con venature aggrovigliate
Strade che conducono dentro grotte
E dentro le grotte
Stalattiti

La lucina del pesce lanterna, flebile, tremula, inquietante, è la nostra voce sommersa. Quel negletto quanto perentorio sentire che dice più di quanto non veicolino le nostre parole alla luce del giorno. Questa voce, per sua natura, ‘rivendica’. Richiama la nostra attenzione nel tentativo di uscire dallo spazio liminale in cui è relegata. In ciò, si offre a noi nella maniera più autentica e disperata (nel senso di ‘dispersa’, sperduta in frammenti apparentemente sconnessi del nostro quotidiano), innocente e vitale come una creatura bambina.

Audino: E quella maniera più autentica e disperata si avverte nello slancio: quasi un invocare il diritto a una presenza, a un ‘esisto, io esisto’.

Mettetemi i guantoni, sì, e io picchierò
E vincerò la cintura
e il titolo.

C’è una dissonanza forte dalla coltre impenetrabile da cui ti lasci sommergere e da cui emergono oggetti come perle, e lo slancio lirico, spesso improvviso, quasi il braccio proteso in avanti di un’eroina sopra il palazzo di una metropoli. Walt Whitman?

Gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello;
Ma o cuore! cuore! cuore!
O rosse gocce sanguinanti sul ponte
Dove è disteso il mio Capitano
Caduto morto, freddato.

Walt Whitman

Ecco che sono!
I sogni miei alla ribalta!
Sporti dagli angoli del reale spietato
Per mano insieme il percorso che porta dalla casa alla
destinazione di Ognigiorno
Loro come frecce
E tra i capelli ho un aculeo di istrice

La foglia è viva!
Fratelli! Chiamiamo le cose con il loro nome!
Diciamo ‘pane al pane e vino al vino’

Capurso: In realtà il mio background poetico è molto classico. Ho studiato greco e latino al liceo classico e letteratura italiana all’università. Conosco i poeti ‘istituzionali’ italiani e ho amato fortemente il classicismo greco (a partire dai poeti lirici greci a cui sono molto affezionata). Nella lirica greca si rinvengono poesie ‘frammentate’ sia nello stile (pindarico, appunto), sia in quanto rinvenute solo parzialmente. Trovo che lo spezzettamento e la congiunzione di immagini apparentemente sconnesse sia molto evocativo. Integrano la mia formazione la letteratura e poesia latinoamericana e qualche poetessa italiana del ‘900 (Antonia Pozzi, Vivian Lamarque, la sempre meravigliosa Alda Merini). Ma sull’eroina… è vero. È un po’ l’altra faccia del povero Cristo ‘martire di scarsa rappresentanza’. Glorioso e perdente, una specie di galantuomo squattrinato, in una versione quasi comica.
I miei eroi sono dis-perati, faticano a mettere insieme il pranzo con la cena e resistono di nuda potenza, di nuda luce (è lì che puntano, insieme al denunciare la propria stessa presenza per dire quel che notavi -appunto- ‘io esisto’). Mai furbi, mai ambiziosi.
L’immersione e il guizzo sono un paradigma di lettura della raccolta. Nascondimento e apparizione… è proprio il pesce lanterna.

Il melograno

Pezzi di specchio sono un mare raffermo
Mi vedo mille volte

Il melograno è cosa saggia
Si apre superbo – Rubini di rugiada

Che io abbia
Ancora
Nella luce tagliente di specchi
La maestà povera di chi vi si abbevera

Audino: L’altro elemento ricorrente è il ricorso alle immagini della natura. Ogni autore ha il proprio serbatoio di significanti e tu sembri attingere spesso da lì, il che è singolare per chi è cresciuto in città, a maggior ragione quando il richiamo è il mare, l’oceano, e anche dagli elementi domestici. Da bambina giocavo spesso con una scatola di bottoni che mia madre usava per rammendare e ci mettevo le mani dentro come nel mais.

Prima ero resa sì
Ma avevo due file di bottoni dorati
E una coda di rondine lunga e lucente

Ora freno l’accartocciarsi di mille piccole pieghe del petto
A fatica
È oceano fermo oggi

Blu grande il tessuto appoggiato increspato piano di vento
orizzontale

Capurso: Io ho una piccola collezione sia di bottoni che di biglie. Sono oggetti pieni di fascino e di rimandi. Anni fa avevo fatto un reportage fotografico a delle biglie che, con dei giochi di luce, diventavano pianeti. Questi oggettini che qua e là si trovano nella raccolta (monetuzze, stoffe, bottoni, …) sono dei microcosmi che rimandano a un mondo sentimentalmente e antropologicamente denso. Il loro fascino, per me, è che -di fronte ai capolavori clamorosi- sono opere minori, dettagli. Eppure, contengono una forza millenaria che dischiude un mondo potentissimo di umanità che, talvolta, mi pare essere dimenticato. È vero, io sono una ‘creatura urbana’, ed ho molto chiaro il concetto di ‘liquefazione’ (per dirla alla Baumann) che coinvolge le società contemporanee e la cultura urbana del terziario avanzato. È in questo emisfero che io lavoro e mi rendo conto che la sensibilità verso una certa ‘materialità durevole’ manca. Tutto è plastica e derivati del petrolio. Tutto è brevità. E allora, qui, ecco che la coperta di ginestra intessuta dalle mani di una anziana signora si accende di un valore inestimabile (non me la sono inventata in uno spazio di mera retorica nostalgica: l’ho vista in una vecchia casa abbandonata e ne sono rimasta intimamente colpita tale era la sua meraviglia). Non capisco perchè un vestito di fibre di plastica debba essere venduto a centinaia di euro su Corso Buenos Aires e la coperta di ginestra sia abbandonata in una casa sperduta ai confini del mondo. Forse questa sensibilità vale anche con le persone. Amo ciò che non appare. Cerco là dove intuisco che ci sia qualcosa che a prima vista non si vede. I miei personaggi sono approcciati sotto questa lente.
Mani che fanno cose, cose che rimandano ad un lavorìo apparentemente distante dalle nostre preoccupazioni quotidiane (i bottoni, le stoffe, utensili da cucina, …) … Cose piccole, insignificanti, piene di malinconia per chi, randagio come il pesce lanterna, si accontenta di sostare nelle pieghe e negli anfratti di ‘un mondo di selfie’.
Infine, la natura. Vero che sono cresciuta in città, conservo (appunto) con maggiore tenacia le immagini della natura. Anche questa come cosa lasciata indietro in un territorio quotidiano fatto di marciapiedi e fumaiole. In effetti, il mio paesaggio naturale, in poesia, è piuttosto immaginifico. è valorizzato fino allo stremo, fino a ridurlo a mero termine di autoevidenza vitale. La mia è una natura dei sensi, dell’intuito, non legata ad un lirismo invece tipico di certe descrizioni poetiche del paesaggio naturale.
Il mare, l’oceano, sono dimensioni quasi prenatali, oppure sono spazi di odissee (ma non è lo stesso…?).
La mia natura, non a caso, è spesso una natura esplosiva (gli argini che si rompono, i torrenti e non i fiumi, le eruzioni vulcaniche, i terremoti) perchè è da questa dimensione della natura come irruento sgorgare della vita contro ogni resistenza razionale, che io pesco… il mio pesce lanterna!

Il pungolo la capra il cardo

Il pungolo la capra il cardo
Terra arida gialla opaca di erba secca
L’inedia dei malversati da destini ineluttabili
Masticano gomma di copertoni – Una volta erano foglie di
coca.
Lamiere – Tetti di acciaio roventi di automobili vecchie di
quarant’anni
Tetti scoloriti
Ferri morti di caldo

Ti amavo
Fiore del papavero
Eri semplice e partorivi
Io per me non ti avrei lasciato mai

 

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